Le incognite e le conferme della crisi Covid-19 – Giugno 2020

 

 

 

 

 

 

 

 

La pandemia ha stravolto le attività produttive e la vita sociale. Come ogni grande crisi anche quella attuale, nonostante le sue peculiarità, rappresenta un banco di prova per i poteri statali e un momento di verifica per la capacità di reazione delle aziende. È impossibile prevedere e quantificare con precisione le conseguenze finanziarie, economiche e sociali. Da più parti vengono prodotte proiezioni e stime sul futuro ma, surclassate dai fatti, spesso nel giro di poco tempo finiscono nel cestino per essere riviste.


SOMMARIO

Titolopag.
Le incognite e le conferme della crisi Covis-191-7-8
L’utilizzo militare dell’IA2-3
ITER: l’energia delle stelle4-5
Cronache del lavoro europeo ai tempi del coronavirus6

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LE INCOGNITE E LE CONFERME DELLA CRISI COVID-19

La pandemia ha stravolto le attività produttive e la vita sociale. Come ogni grande crisi anche quella attuale, nonostante le sue peculiarità, rappresenta un banco di prova per i poteri statali e un momento di verifica per la capacità di reazione delle aziende. È impossibile prevedere e quantificare con precisione le conseguenze finanziarie, economiche e sociali. Da più parti vengono prodotte proiezioni e stime sul futuro ma, surclassate dai fatti, spesso nel giro di poco tempo finiscono nel cestino per essere riviste.

Alcuni autorevoli commentatori hanno sostenuto che la crisi Covid-19 sia per gli effetti paragonabile alla somma di quella del 2008 e delle Torri Gemelle del 2011, altri ritengono che sia la peggiore dal 1945. Indubbiamente, ci troviamo di fronte ad un evento di portata epocale. Emblematico, ad esempio, è che per la prima volta nella storia il prezzo del petrolio è arrivato a livelli negativi. Possiamo, per ora, proporre alcune considerazioni di fondo che, a partire dai primi effetti dell’emergenza e dalle costanti delle crisi economiche, possono servire per comprendere meglio il funzionamento della nostra società. Condizioni sociali preesistenti ma che il virus sta rendendo più evidenti, condizioni sociali che le conseguenze economiche sottoporranno a dure prove ed in cui i lavoratori dovranno essere pronti a dire la loro.

Una crisi prevedibile?

Le malattie non sfuggono al mutamento incessante delle condizioni naturali. Ne sorgono sempre di nuove, in risposta alle condizioni trasformate dell’habitat di cui l’uomo è un fattore, anche se non il solo. Nel caso dei virus, sono oltre duecento le specie conosciute in grado di infettare l’uomo, e tre-quattro inedite vengono scoperte ogni anno. L’allarme medico sul pericolo accresciuto di pandemie è risuonato periodicamente negli ultimi due decenni. Riportiamo nel riquadro parte di uno studio dell’Organizzazione Mondiale della sanità di settembre 2019 come esempio eloquente e non certo unico. Ma di fronte a questi moniti, nessuno Stato ha avvertito l’esigenza di attrezzarsi per tempo. Anzi la tendenza che si è imposta è stata di contenere i costi, compresi quelli sanitari, per reggere la competizione. Ovunque la capacità di ricezione delle strutture ospedaliere è stata ridimensionata e in quanto a scorte, riserve di medicine e dispositivi sanitari, anche tutti i modelli sanitari di eccellenza si sono rivelati inadeguati.

Ingenti risorse andrebbero investite in tutta la filiera sanitaria: nella prevenzione e sorveglianza della salute degli animali e delle persone, nella ricerca e produzione di vaccini, nell’adeguato stoccaggio di scorte, nello sviluppo e implementazione di attrezzate sanitarie e nella formazione di personale. Tutto “troppo costoso”, per un sistema che chiaramente pone al primo posto l’obiettivo di ottenere immediati profitti.

L’umanità avrebbe oggi conoscenze scientifiche e capacità produttive per affrontare, preparandosi per tempo, anche le nuove epidemie, ma la divisione in Stati e l’incessante scontro per ripartire il mercato mondiale da parte dei colossi economici rende impossibile affrontare con una visione globale, cooperativa e condivisa qualunque problema, compreso, va da sé, una pandemia.

Dilemmi strategici

Negli ultimi anni la competizione globale, in particolare quella tra USA e CINA, ha prodotto una crescita di tensioni commerciali e una tendenza a maggiori posture protezioniste. Ora l’impatto di questa nuova crisi pone ulteriori interrogativi al mondo, anche perché lo shock economico è contemporaneamente di domanda e di offerta. La crisi ha mostrato quanto sia complicato risalire per intero alla catena di produzione dei beni, sempre più lunga e frammentata con infiniti intrecci tra settori e tra Stati. È probabile che la messa in sicurezza delle filiere produttive sarà uno degli aspetti su cui si concentrerà la prossima ristrutturazione. Le delocalizzazioni (offshoring) erano già in rallentamento, potrebbe registrarsi una ulteriore spinta a riportare le produzioni industriali in nazioni più vicine (nearshoring) o rimpatriarle del tutto (reshoring), per aumentare il controllo.

Gli interrogativi che non hanno risposta sono molti. Ad esempio, dopo la disastrosa carenza delle “banali” mascherine, chi può continuare a fare affidamento esclusivo ad un solo fornitore o ad un solo mercato? La globalizzazione rallenterà per diminuire la dipendenza da specifiche zone geografiche? Come si modificherà la divisione internazionale del lavoro e le catene di fornitura? La produzione snella basata sul just in time sarà sostituita da un ritorno alle scorte dei magazzini? Fino a che punto si spingerà l’intervento degli Stati nelle imprese? Analoghe domande riguardano tutti i settori produttivi. Molte aziende saranno in difficoltà, è molto probabile un’ondata di concentrazione. L’attività delle imprese va considerata in tutte le componenti del ciclo: finanziamento (ovvero capitali e non solo liquidità) produzione e rete di vendita. Ci sarà bisogno di più o meno auto dopo la riorganizzazione dei mezzi pubblici? Come si trasformerà la filiera della componentistica? Gli ultimi 10 anni hanno visto il trionfo dei SUV, si passerà ad altri modelli? Accelererà o frenerà la transizione verso l’auto elettrica? Come muterà il car sharing ed in generale l’autonoleggio? I BIG TECH americani usciranno rafforzati dalla crisi? Accelererà la digitalizzazione delle aziende con il boom del lavoro da remoto? Che fine faranno le compagnie aeree? Non sono discussioni astratte ma scelte al vaglio delle principali potenze e dei colossi economici. Per tutti il fattore tempo giocherà un ruolo determinante. Trasformarsi è nella natura del capitalismo ma non ci sono mai stati “pasti gratis”. L’imprevedibile portata della crisi pandemica modificherà il mercato mondiale per come lo conosciamo e impatterà sulle condizioni di lavoro anche dei tecnici produttori.

La più grande quarantena della storia non è uguale per tutti

Secondo le stime dell’ILO che riportiamo in figura, oltre l’80% di tutta l’occupazione del pianeta è risultata in vario mondo colpita dal “big lockdown”. Va considerato che esistono circa 2 miliardi di lavoratori “informali” nel mondo; con questo eufemismo l’ILO indica i lavoratori privi di formali accordi contrattuali e tutele legali. Il contrasto con il nostro modo di vivere è stridente. Nelle immense baraccopoli in Africa, Asia, e America Latina, il distanziamento sociale è una chimera. La vita dei lavoratori precari o giornalieri – tra il 50% e l’80% della popolazione attiva nei Paesi a basso e medio reddito – dipende dalla possibilità di uscire di casa, fosse solo per andare a prendere l’acqua per lavarsi le mani e soprattutto per lavorare. È possibile una crisi alimentare perché il cibo c’è ma, senza paga giornaliera, non lo si può comprare. L’amaro paradosso è che una situazione del genere si può ritrovare anche nei quartieri poveri delle grandi città del mondo più sviluppato, un esempio su tutti il Bronx a New York.

Essenziali ma invisibili

La crisi del coronavirus ha squadernato come sono i reali rapporti sociali anche nei paesi più sviluppati.

Anni di mistificazioni giornalistiche e di sociologie interessate crollano miseramente di fronte a quanto è emerso in questi due mesi di quarantena. La tabella che riportiamo dà un’idea sintetica della percentuale di occupazione nelle varie branche economiche.

La società può funzionare solo se milioni di lavoratori continuano ad essere operativi e non restano a casa. Il settore sanitario in prima fila, ma anche i trasporti e la logistica, la grande distribuzione, le utility e tutti gli addetti delle industrie che non hanno chiuso per produrre ciò che è necessario. Spesso sono i lavoratori meno pagati e più precari anche nei paesi più sviluppati. Inoltre, in agricoltura, emerge un esercito di lavoratori prevalentemente composto da immigrati che già non erano garantiti e, senza di loro, la frutta e la verdura non arriva sulle nostre tavole. Ma nonostante questa emergenza si assiste ad uno spettacolo indegno, faticano a regolarizzarli per paura di perdere consensi elettorali.

La borsa o la vita

La scelta delle chiusure straordinarie delle aziende varate dal governo ha scatenato, nei giorni seguenti la loro adozione, una veemente reazione da parte dei gruppi economici e delle loro rappresentanze con in testa CONFINDUSTRIA. Inizialmente, anche minimizzando i rischi per la salute, molti non volevano chiudere e chi continuava a produrre riluttava a mettere in campo le misure necessarie. In alcune aziende si è dovuto scioperare per imporre il rispetto del Protocollo sulla sicurezza che il sindacato ha sottoscritto con i datori di lavoro. Ancora di più la pandemia mostra che nella società ci sono interessi che sono contrastanti. Solo nel collettivo, nella coalizione i lavoratori hanno la forza per potersi difendere, rivendicare e portare avanti i propri interessi. Molti nostri colleghi, invece, si sono trovati a lavorare in Smart Working (più corretto definirlo Home Working) anche in molte aziende che prima lo ritenevano assolutamente impossibile.

Da un giorno all’altro milioni di persone si sono cimentate con il lavoro da casa per la prima volta. Una forma di lavoro su cui occorre riflettere meglio viste le nuove dimensioni quantitative che sta assumendo. Vanno approfonditi e verificati sul lungo periodo i vantaggi ma anche gli svantaggi ed i rischi spesso meno evidenti nell’immediato. Bisogna quindi studiare meglio il fenomeno, valutarne i possibili riflessi nel lungo periodo e quindi arrivare a nuovi accordi per definire meglio gli aspetti economici, quelli normativi e soprattutto quelli inerenti alla sicurezza.

Crisi simmetrica risposta asimmetrica

La fase due, in varie forme, è in corso in tutto il pianeta. Con il grande interrogativo di fondo: ci sarà una nuova ondata di contagi in attesa del vaccino? Nel frattempo i governi e le Banche Centrali hanno già messo in campo una massa di aiuti esorbitante, ben oltre quanto speso nella crisi del 2008, nel tentativo di contenere le ripercussioni economiche. Lo abbiamo già visto nel 2008 e nella crisi dei debiti sovrani del 2011, tutto quello che viene erogato rappresenta un aumento dell’indebitamento e dunque verrà ripreso in seguito cercando di farlo pagare ai lavoratori.

Si apre una fase di grande intervento statale con modalità che si stanno precisando. Gli Stati che avevano conti più in ordine hanno potuto investire maggiormente. In Europa è la Germania che da subito ha inondato la propria economia di aiuti pubblici con un indirizzo strategico chiaro: ristrutturazione industrialista per accelerare la transizione green. Secondo molti commentatori questa scelta darà ulteriore vantaggio alla Germania e aggraverà il ritardo delle altre economie.

L’Italia è in affanno, con i suoi tanti “virus” preesistenti. Già è appesantita da un enorme debito pubblico che ne limita i margini di manovra, inoltre sconta il limitato mercato dei capitali, il forte ruolo delle banche nel finanziamento, la frammentazione in una miriade di piccole imprese, una platea enorme di autonomi (un quarto del totale dei lavoratori in Italia, il doppio che il Nord Europa) in prima fila nella richiesta di sussidi e l’ampia presenza di lavoro nero ben nota a tutti.

La crisi Covid-19 tra piano Green Deal e Recovery Fund potrebbe venire incontro al settore auto e a quello energia per un’accelerazione della transizione energetica, anche se per molti il tracollo prezzi oil potrebbe, invece, essere un freno. Da vedere inoltre come agiranno gli Stati con gli incentivi alla rottamazione e i divieti alla circolazione. È probabile una spinta per creare campioni europei in grado di competere nel mondo e garantire la sovranità tecnologica e industriale; procedere con la decarbonizzazione o spingere alla concentrazione in settori hi-tech e delle telecomunicazioni o anche salvaguardare settori tradizionali come l’acciaio, fondamentale per l’auto, la meccanica la difesa e l’aerospazio.

Necessità di coalizione

Il massiccio intervento degli Stati nell’emergenza ha come scopo principale tutelare la possibilità per le aziende di riprendere a fare profitti. Che poi ciò significhi anche sostenere l’occupazione, non è così certo, anzi potrebbe essere il prezzo che ci chiederanno di pagare.

Gli sconvolgimenti economici e sociali che si intravedono sono consistenti. La lotta fra i grandi gruppi sarà ancora più accanita, la concorrenza porterà a maggiori scontri ed alla necessità di ridurre ulteriormente i costi anche tentando di premere sui salari e sulle condizioni lavorative non solo degli occupati più deboli ma anche degli strati superiori della forza lavoro. Carlo Bonomi come neopresidente di Confindustria, ripreso da tanti altri, è stato molto esplicito: “Bisogna avere ben presente che quella che sta iniziando è la stagione dei doveri e dei sacrifici”. Lo prendiamo in parola ma conosciamo bene il significato di queste affermazioni, sappiamo a chi sono indirizzate. Dobbiamo quindi prepararci ai tempi difficili che ci attendono, saremo chiamati a fare delle scelte, dovremo decidere da che parte stare. Per difendere le nostre condizioni, anche nel dopo Coronavirus, ci sarà bisogno di maggiore comprensione dei fenomeni per meglio agire, ci sarà bisogno di maggiore solidarietà, di rendere più compatta la coalizione, ci sarà la necessità di una maggiore organizzazione che superi i confini aziendali e nazionali per evitare che i sacrifici si scarichino prevalentemente sulle spalle dei lavoratori.


L’UTILIZZO MILITARE DELL’IA

I DRONI, i velivoli senza equipaggio a bordo (Unmanned aerial vehicle UAV) sono una novità relativamente recente al servizio della guerra. Utilizzati per operazioni di ricognizione già nella guerra in ex Jugoslavia, sono stati impiegati per operazioni di attacco dopo l’11 Settembre nella guerra al terrorismo e in particolare a partire dalla amministrazione Obama. Anche il 2020 si è aperto con l’azione di droni militari statunitensi che hanno portato all’uccisione del generale iraniano Soleimani. Prodotti non solo dalle industrie statunitensi sono ora in dotazione agli eserciti delle principali potenze mondiali [1]. È doveroso precisare che questi velivoli non sono completamente autonomi ma sono guidati via radio da un equipaggio a terra, i vantaggi militari sono comunque notevoli. È possibile impiegare questi apparecchi in lunghi vagabondaggi sui cieli nemici (capacità detta di lothering), troppo lunghi per un pilota in carne ed ossa o comunque molto pericolosi. Un primo obbiettivo di tali ricognizioni è raccogliere filmati delle posizioni nemiche, che inviate alla base di terra, permettono a generali e capi di stato di sbirciare attraverso la proverbiale nebbia della guerra. Se il velivolo è poi armato si può anche decidere di colpire immediatamente il bersaglio inquadrato.

L’intelligenza dei droni

Spesso si sopravvaluta l’autonomia dei droni, immaginando futuristici agenti robotici in grado di inseguire e distruggere in completa autonomia i propri bersagli. Anche se esistono esempi di sistema di armi con maggiore autonomia, si tratta spesso di droni teleguidati. L’equipaggio umano quindi esiste ma, invece di trovarsi sul velivolo, sta a terra. Pilotato da un segnale inviato in prossimità del velivolo in fase di decollo o atterraggio, può essere poi gestito anche da chilometri di distanza mentre è in volo tramite il segnale satellitare. Al contrario non bisogna però sottovalutare la potenza del sistema digitale che permette al velivolo di gestirsi autonomamente in molte delle operazioni di volo. Data la latenza che va oltre il secondo tra invio e ricezione del segnale, è evidente che l’equipaggio da terra non ha la possibilità di maneggiare il velivolo come potrebbe farlo un pilota a bordo. Inoltre stiamo parlando di operazioni in terreno nemico: è necessario che il drone sia in grado di auto pilotarsi in caso di segnale assente o scarso.

IA per scopi militari

Un altro aspetto da non dimenticare è poi la necessità di elaborare il grande volume di fotogrammi raccolti e inviati dal drone, allo scopo di identificare gli obbiettivi nemici.

In questo caso entrano in gioco gli stessi algoritmi di machine learning alla base dei prodotti offerti come servizi di consumo dai Big dell’informatica sulle loro piattaforme. Per esempio è facile immagi-nare che gli stessi strumenti offerti per catalogare foto in base ai volti e i soggetti identificati nell’immagine, possono essere utilizzati per identificare unità nemiche sul campo di battaglia. Non è un fatto nuovo che la stessa tecnologia possa essere usata per migliorare la vita dell’uomo in tempo di pace, così come per migliorare la capacità di distruggere in tempo di guerra.

Ed è proprio per integrare l’IA nei suoi arsenali che nel 2017 il Dipartimento di Difesa americano ha creato la Algorithmic Warfare Cross-Functional Team (AWCFT), anche conosciuto come Project Maven [2].

Lo scopo è esplicitamente quello di coinvolgere esperti del settore privato per applicare in campo militare le stesse tecnologie di intelligenza artificiale usate dalle aziende civili. Quando la notizia della partecipazione di Google a questo progetto è venuta a galla [3], si sono sollevati malumori tra i suoi dipendenti tanto che l’azienda ha dichiarato l’intenzione di abbandonarlo [4]. Le proteste sono sicuramente condivisibili ma la notizia non dovrebbe sorprendere. Eric Schmidt, CEO di Google dal 2001-2011, già dal 2016 ha abbandonato il suo posto in Alphabet per entrare nel Defense Innovation Advisory Board [5]. Si tratta di un’altra iniziativa del Dipartimento della Difesa con il preciso scopo di cooptare tecnologie, organizzazione e uomini della Silicon Valley in vista delle sfide militari del futuro.

A preoccupare gli Stati Uniti, paese da sempre molto attento a mantenere il primato nella tecnologia militare, è sapere di non essere i soli ad investire in questo settore.

Rientra nella strategia cinese della Civil-Military Fusion (sinergia tra industria della difesa e commercio) anche il piano Next Generation Artificial Intelligence con obbiettivi del tutto simili al gruppo per l’innovazione americano. Sia in una nazione a partito unico come nella più liberale democrazia al mondo, invenzioni e soluzioni create con le migliori intenzioni, possono sempre finire per essere impiegate nella distruzione della guerra con o senza il consenso esplicito di chi li ha prodotti. Esistono buoni propositi, come ad esempio la lettera aperta contro l’uso di armi autonome di attacco (Offensive Autonomous Weapons) presentata da un gruppo di scienziati all’apertura del International Joint Conferences on Artificial Intelligence Organization del 2015 [6]. Ma la storia ci insegna i limiti dei divieti imposti sull’utilizzo delle armi e quanto sia poco definito il confine tra operazione di attacco e difesa in guerra.

I limiti delle armi autonome

La denuncia sembra peccare inoltre di ingenuità visto che prende in considerazione solo le armi con un autonomia che va “oltre un significativo controllo umano” (beyond meaningful human control), escludendo quindi tutti quei sistemi d’arma in cui è l’uomo a prendere l’ultima decisione. Come riporta Paul Sharre nel suo libro “Army of None” [7] l’idea di dare totale controllo ad un arma autonoma non piace nemmeno ai capi militari che sanno bene come la mancanza di controllo da parte dell’uomo possa portare più svantaggi che vantaggi nel caos di un azione di guerra. Tragicamente istruttiva in questo senso è stata la lezione imparata sul campo della guerra in Iraq con l’utilizzo del sistema di difesa Patriot, impiegato nella Guerra del Golfo del 2003 per proteggere l’avanzata di terra dai razzi cruise iracheni. Il sistema è composto da lanciamissili terra-aria coordinati da un sistema informatico in grado di indirizzarli autonomamente verso le minacce rilevate dai sistemi radar di supporto.

Solo il lancio definitivo richiede l’approvazione degli operatori di terra. Nonostante la missione abbia intercettato tutti i nove missili lanciati dalle forze irachene, si sono verificati ben tre incidenti che hanno comportato l’abbattimento di unità amiche. Un inaccettabile tasso di errore del 25% ha richiesto approfondite indagini da cui è emerso che proprio la fiducia nell’“intelligenza” del sistema ha portato all’errore gli operatori umani. Quest’ultimi, trovandosi a fornire l’approvazione a fare fuoco nei pochi minuti concessi dall’emergenza, si sono spesso totalmente affidati al sistema automatico approvando con troppa facilità i lanci verso le minacce identificate.

Come ogni arma ai nuovi straordinari vantaggi corrispondono altrettanti nuovi imprevisti svantaggi. In questo caso il vantaggio è un ciclo di ricerca, identificazione e ingaggio del bersaglio portato a termine da un computer ad una velocità preclusa a qualsiasi squadra umana. D’altra parte, per quanto potente qualsiasi algoritmo di intelligenza artificiale, manca ancora la flessibilità che permette di considerare tutti gli aspetti di una situazione per evitare tragici errori.

Non bisogna poi dimenticare che ogni volta che si utilizza un sistema informatico si rende necessario provvedere ad adeguate difese altrettanto sofisticate per non prestare il fianco a possibili attacchi cybernetici.

Investimenti e uomini per le armi autonome

Purtroppo la storia ha già dimostrato come nel pieno della violenza organizzata in guerra, si superi presto qualsiasi limite che sia imposto dalla prudenza tattica o dall’etica sociale. In tutte le fasi storiche ogni potenza ha utilizzato il meglio dell’apparato produttivo per i propri eserciti. E sono state proprio le scoperte scientifiche a cambiare nei secoli l’organizzazione e il potenziale distruttivo degli eserciti. Quanto potrà essere distruttivo per l’umanità l’uso delle nuove tecnologie digitali in tempo di guerra è quasi impossibile prevedere. Mentre è quantificabile e già oggi misurabile il titanico investimento economico che i vari Stati profondono in questo obiettivo. Capitali e lavoro di scienziati e tecnici sono il vero motore che in ogni nazione permette a questi sistemi di essere creati, via via migliorati e mantenuti. Di fronte ai limiti che i sistemi sanitari del mondo intero hanno manifestato con l’impatto della pandemia, è evidente che sarebbe bastata una frazione di quei capitali e quei cervelli per limitarne gli effetti.

Link

[1] History of drone warfare (The bureau of investigative journalism)
[2] Pentagon’s Plan to Win Over Silicon Valley’s AI Experts (Wired 21/12/18)
[3] Google Is Helping the Pentagon Build AI for Drones (Gizmodo 3/6/18)
[4] Google Hedgs on promise to end controversial involment in military drone contract (The intercept 1/2/19)
[5] Former Google CEO Schmidt to head new Pentagon innovation board (Reuters 2/3/16)
[6] Open Letter From AI Robotics Researchers (https://futureoflife.org/ July 2015)
[7] Army of None (Paul Sharre 2018)


ITER: L’ENERGIA DELLE STELLE

Nel sud della Francia, a Caradache, è aperto uno dei più grandi cantieri del mondo con un obiettivo molto ambizioso: costruire la prima centrale che sfrutti la fusione nucleare controllata per produrre energia. Si tratta del progetto internazionale ITER (International Thermonuclear Experimental Reactor) dove 35 stati, in sostanza le maggiori potenze industriali, collaborano per arrivare a un risultato sempre ambito, ma mai raggiunto fino a ora.

Le centrali nucleari attualmente operative sfruttano il processo di fissione, ovvero catturano l’energia liberata con la divisione di nuclei di elementi pesanti (uranio, plutonio ecc.) in nuclei più leggeri. A differenza della fissione, durante il processo di fusione, nuclei di elementi leggeri si fondono, in condizioni estreme di temperatura e pressione, dando luogo a nuclei più pesanti e liberando al contempo una enorme quantità di energia.

L’energia delle stelle

La fusione nucleare è lo stesso processo di produzione di energia che avviene nelle stelle. Nel corso della maggior parte della vita delle stelle, quindi anche nel nostro Sole, questo processo avviene tramite fusione di nuclei di idrogeno, l’elemento più leggero dell’universo, in nuclei di elio. Nel Sole, ogni secondo, 600 milioni di

tonnellate di idrogeno si trasformano in elio tramite il processo di fusione, liberando l’energia che viene poi irradiata nello spazio. Le ricerche per la riproduzione di questo fenomeno sono iniziate nella seconda metà del secolo scorso. Tuttavia i successi ottenuti sono limitati per via delle enormi difficoltà tecniche che la riproduzione di un tale processo in forma controllata comporta. Si tratta di portare i nuclei da fondere a 150 milioni di gradi Celsius in uno stato della materia denominato plasma e mantenere stabile questo stato, estraendo l’enorme energia prodotta e fornendo in modo controllato nuova materia da fondere.

Gli esperimenti condotti fino a ora hanno permesso di ottenere la fusione per frazioni di secondo spendendo più energia per ottenere l’innesco del processo di fusione di quanta energia poi sia stata estratta dal processo stesso. L’esperimento JET del 1997 in Europa (l’esperimento con la più alta efficienza fino ad ora realizzato) ha permesso di ottenere 16 MW di potenza per qualche frazione di secondo, con una spesa di 24 MW. Il cosiddetto fattore di guadagno Q, cioè il rapporto tra la potenza spesa e la potenza ottenuta è stato pari a 0,67.

Il progetto ITER si propone come obiettivo un fattore di guadagno Q=10, una potenza ottenuta di 500 MW e una reazione stabile e controllata per almeno 1000 secondi. Il successo del progetto ITER nei suoi obiettivi è la dimostrazione di come la produzione di energia per fusione nucleare sia possibile su larga scala.

Dalle stelle a questioni più terrene

Al progetto partecipano la UE, con il 45,4% dei costi di realizzazione, Cina, India, Giappone, Russia, USA e Corea del Sud ciascuno con il 9,1%. L’accordo definitivo è stato firmato nel 2005 e i lavori al sito di Carada sono iniziati nel 2010. I costi, inizialmente previsti in 10 miliardi di dollari, sono stati rivisti al rialzo. 20 miliardi di dollari è la stima attuale. Inoltre la data per l’accensione del reattore è stata spostata alla fine del 2025 dopo una iniziale previsione del 2019. La spartizione del budget di spesa tra le maggiori potenze industriali ha fatto sì che si dovesse procedere a una complessa operazione di ripartizione delle commesse tra i vari stati in funzione della proporzione alla loro partecipazione con effetti anche paradossali.

Compromessi

Il vacuum vessel, il toroide di contenimento del plasma, è realizzato in Europa e Corea; il solenoide centrale è costruito da USA e Giappone; il divertore, il sistema che cattura i prodotti della reazione (nuclei di elio e neutroni liberi), è realizzato in Europa, Russia e Giappone; l’India e gli Usa sono responsabili del sistema di refrigerazione; i magneti sono realizzati da tutti i membri ad esclusione dell’India e così via.

La stessa scelta del sito che avrebbe ospitato il reattore è stato oggetto di una contesa tra UE e Giappone viste le inevitabili ricadute economiche, con intere filiere produttive al seguito del cantiere, oltre al prestigio internazionale di ospitare un progetto di tale valore tecnico e scientifico. La contesa si è chiusa con un compromesso: la UE avrebbe ospitato il reattore, ma il Giappone ha ottenuto in cambio il 20% dello staff di ricerca in Francia oltre al comando dello staff amministrativo. Inoltre l’accordo ha previsto la realizzazione di un centro di ricerca in Giappone per il progetto finanziato al 50% dalla UE. Il reattore con tutti i sistemi ausiliari e di gestione occuperà un’area di 42 ettari. L’organizzazione scientifica, ingegneristica, logistica e manageriale per gestire questo progetto, che prevede l’assemblaggio finale al sito di circa un milione di componenti provenienti da tutte le parti del mondo, è al limite delle capacità.

Il progetto

Il cuore del progetto è rappresentato dal reattore, il TOKAMAK.

Tokamak è il nome con cui vengono chiamati i reattori a fusione di forma toroidale. Il Tokamak di ITER è costituito essenzialmente da una camera a vuoto di forma toroidale in cui sarà confinato il plasma a 150 milioni di gradi. Questa camera avrà un diametro di 19,4 metri, un’altezza di 11,4 metri e un peso 5200 tonnellate. E’ dieci volte più grande della più grande camera a vuoto realizzata fino ad ora. Sarà realizzata in acciaio a doppia parete per permettere la circolazione di acqua che dovrà estrarre il calore dal reattore. Il plasma all’interno della camera a vuoto sarà mantenuto in posizione, al centro del toroide grazie a un sistema di campi magnetici generati da magneti superconduttori posti attorno alla camera a vuoto. I sistemi magnetici sono tre: un sistema di magneti toroidali, che avvolgono cioè la camera a vuoto; un sistema denominato poloidale, che avvolge l’insieme di magneti toroidali e camera a vuoto; e un solenoide centrale. I magneti sono realizzati in lega di niobio. L’insieme degli avvolgimenti dei sistemi magnetici avrà una lunghezza di 100.000 km. La necessità di produrre tale sistema di avvolgimenti magnetici per il progetto ITER ha determinato un innalzamento della produzione mondiale di cavi conduttori al Niobio da 15 tonn/anno a 100 tonn/anno.

L’insieme dei magneti ha un peso di 10.000 tonnellate e per poter sviluppare il campo magnetico necessario a confinare il plasma dovrà essere raffreddato con elio liquido a una temperatura di -269°C. Questo significa che a una distanza di qualche metro all’interno del reattore ci saranno punti a 150 milioni di °C e punti con temperature prossime allo zero assoluto (-273°C) facendo dire a qualcuno che probabilmente nell’universo intero non c’è altro posto con un simile gradiente termico.

L’insieme della camera a vuoto, dei magneti e di altri sistemi, sono posizionati all’interno di una grande camera chiamata Criostato. In essa sarà realizzato un vuoto spinto (0,1 Pa, pari a un milionesimo della pressione atmosferica). E’ la più grande camera a vuoto mai costruita con un diametro di circa 30 metri e altezza simile, realizzata in acciaio inossidabile con spessore variabile tra 50 e 250 mm.

Il peso complessivo del Tokamak è pari a 23.000 tonnellate.

La spartizione delle commesse

Alcune tra le maggiori aziende del pianeta partecipano alla realizzazione del progetto. La francese Vinci, la più grande società di infrastrutture al mondo ha l’appalto per buona parte delle opere civili principali, tra cui l’edificio di 80 x 120 x 80 m che ospita il Tokamak e che è realizzato su una platea di fondazione che poggia su 493 pali capaci di assorbire movimenti sismici fino a 10 cm. Due dei 9 settori della camera toroidale sono stati realizzati da Hyundai; le restanti sette da un consorzio italiano guidato da Ansaldo Nucleare; l’indiana Larsen & Tubro ha costruito il Criostato da 4000 tonnellate che però sarà montato al sito dalla tedesca Man Energy; la francese Air Liquide ha realizzato il sistema di raffreddamento a elio liquido: la porzione giapponese del solenoide superconduttore è stato affidato alla Nippon Steel.Sono stati assegnati nove diversi contratti per le opere civili e i montaggi delle macchine e dei sistemi elettrici e di controllo. L’assemblaggio del Tokamak a Caradache, con i pezzi provenienti da tutto il mondo, è stato affidato a due contratti: uno al consorzio italiano Dynamic, guidato da Ansaldo Nucleare e l’altro al consorzio cinese CNPE.

Per i soli lavori civili sono previsti 18 milioni di ore in cantiere con un picco di 2000 operai. Per i montaggi meccanici ed elettro-strumentali quasi altrettanto. Al picco, tra il 2020 e il 2022, gli operai in cantiere saranno 4100.Il solo contratto per la gestione e il coordinamento dei lavori, del valore di 193 milioni di dollari, è stato assegnato alla AMEC- Foster Wheeler, Assystem e Kepco. I pochi numeri dati sopra servono a dare un’idea della complessità ed estensione del progetto che vede il coinvolgimento su larga scala di scienziati e ingegneri di tutto il mondo per risolvere problemi mai affrontati prima dall’umanità. ITER dovrà, tra le altre cose, sperimentare la produzione in proprio di Trizio, l’isotopo dell’idrogeno parte essenziale del processo di fusione.

Nelle sperimentazioni dei decenni scorsi si è infatti appurato che la fusione più efficiente, cioè quella che sprigiona maggior energia alla più Il nucleo dell’idrogeno è normalmente composto da un solo protone. Il deuterio, isotopo dell’idrogeno, oltre al protone include anche un neutrone nel suo nucleo. Il trizio due neutroni oltre al protone. La fusione deuterio-trizio porta alla creazione di un nucleo di elio (due protoni + due neutroni) e un neutrone libero. Mentre il deuterio è relativamente abbondante in natura e facilmente estraibile, il trizio è molto raro. Sulla terra le riserve di trizio ammontano attualmente a 20 kg. ITER deve dimostrare di poter autoprodurre trizio che poi potrà essere usato come combustibile grazie al bombardamento dei neutroni che si liberano nel processo di fusione. Una futura centrale nucleare a fusione, costruita sulle basi teoriche e sperimentali provate dal progetto ITER, permetterebbe di alimentare una centrale da 1.000 MW per un anno con soli 250 kg di combustibile nucleare, costituito per metà da deuterio e per metà da trizio. Per fare un confronto, una equivalente centrale a carbone da 1.000 MW brucia ogni anno 2,7 milioni di tonnellate di carbone.

La fusione nucleare è considerata il “santo Graal” della produzione di energia, capace di liberare per sempre, secondo alcuni, l’umanità dal bisogno. Si sarebbe portati a credere che gli sforzi per un obiettivo potenzialmente così dirompente sia massimo, ma in realtà non è così. Sono decine di migliaia le persone, alcuni tra i migliori cervelli, che lavorano al progetto, il quale, come molti altri nella odierna società, è vincolato ai divergenti interessi economici e strategici delle grandi aziende e dei relativi Stati. Il progetto ITER è l’ennesima dimostrazione delle immense potenzialità che avremmo se tutta l’umanità potesse agire assieme per uno scopo preventivamente voluto.


CRONACHE DEL LAVORO EUROPEO AI TEMPI DEL CORONAVIRUS

Il BOLLETTINO INTERNAZIONALE che presentiamo raccoglie la selezione della corrispondenza dell’ufficio internazionale della FIOM di Genova, a cui si sono aggiunte una serie di cronache dalle fabbriche e dalle categorie degli ultimi due mesi. Il documento è stato prodotto in collaborazione con il Coordinamento europeo dei Consigli di Fabbrica della Siderurgia e con la Cooperazione Ingegneri e Tecnici. Queste ultime sono due realtà di cui abbiamo già parlato e che dimostrano come sia possibile avviare una cooperazione tra consigli di fabbrica di settori diversi e di paesi diversi nella prospettiva di un sindacato europeo.

Dalla presentazione del bollettino: “Abbiamo sempre lavorato per alzare lo sguardo alla condizione reale dell’operaio europeo, convinti della necessità di un vero sindacato europeo che sapesse coordinare le nostre lotte in una prospettiva comune. La ristrutturazione di questi anni, nella siderurgia, nella cantieristica, nei settori dove lavorano milioni di ingegneri e tecnici, dall’auto all’aerospazio – abbiamo sempre detto – era europea. Il sindacato doveva essere europeo. E le grandi fabbriche metalmeccaniche avevano la responsabilità di indicare questa strada. Poi è arrivata la pandemia, e con essa i problemi della sicurezza sul luogo di lavoro. […] Ancora una volta, i lavoratori devono difendersi da loro stessi, con il sindacato. E la strada è ancora lunga, se si pensa a quei settori meno sindacalizzati dove le pressioni padronali costringono milioni di lavoratori, in Italia e in Europa, a rischiare la propria vita per portare a casa il salario. Sappiamo benissimo che oggi ci definiranno “essenziali” per il paese, ma domani non esiteranno a cercare di scaricarci addosso i costi della recessione. Il sindacato è nato dalle lotte per il salario e per il miglioramento delle condizioni di lavoro degli operai. La rivendicazione delle condizioni di vita dei lavoratori è nelle pagine migliori della nostra storia. Oggi la pandemia aggiunge un nuovo capitolo di quella storia”.

Le cronache raccolgono delle corrispondenze tra i vari siti siderurgici d’Europa ma anche altro materiale.

Per un utile confronto, vi sono le raccomandazioni sanitarie implementate nell’impianto di Arcelor Mittal di Brema. È riportato il decalogo del sindacato tedesco IG METALL per la sicurezza in azienda. Vi è un approfondimento sul kurzarbeit, una sorta di cassa integrazione in Germania. Sono presenti anche testimonianze di aziende genovesi: Leonardo, Tenova, Hitachi Rail, Fincantieri, Ansaldo Energia. Concludiamo questa breve presentazione riportando una carrellata di spunti dalle testimonianze citate: istituiti tavoli permanenti di confronto azienda e sindacati; fermate di autotutela al primo manifestarsi di un collega positivo; scioperi per affermare che si poteva continuare a lavorare ma solo in sicurezza; operazioni di igienizzazione e sanificazione monitorate dagli RLS; accordi per estendere lo smart working a tutti i colleghi. Ancora una volta, anche ai tempi del coronavirus, abbiamo la piena conferma che solo la forza della nostra coalizione può consentire una effettiva difesa delle condizioni di lavoro.