Bollettino 2019 settembre

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Il sostantivo “guerra” è quello più utilizzato nell’ultimo periodo per descrivere le relazioni tra i principali Stati: guerra commerciale, guerra tariffaria, guerra monetaria, guerra diplomatica, guerra tecnologica e in alcuni casi minaccia di guerra militare.

È il segno dei tempi che stiamo vivendo, in cui la competizione è cresciuta di livello anche nei termini lessicali.


SOMMARIO

Titolopag.
Incertezza e necessità di coalizione1-8
Leonardo da Vinci2
Demografia, giovani e contratti3
Aziende europee, sindacato europeo3
L’ingegnere nella storia (parte X)4-5
La foto del secolo6-7

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INCERTEZZA E NECESSITÀ DI COALIZIONE

Il sostantivo “guerra” è quello più utilizzato nell’ultimo periodo per descrivere le relazioni tra i principali Stati: guerra commerciale, guerra tariffaria, guerra monetaria, guerra diplomatica, guerra tecnologica e in alcuni casi minaccia di guerra militare. È il segno dei tempi che stiamo vivendo, la competizione è cresciuta di livello e non solo nei termini lessicali.

Segnali di recessione

Nel mese di agosto molti commentatori hanno acceso alcune spie rosse per una possibile recessione mondiale, dopo 10 anni di espansione caratterizzati, però, da un’esposizione finanziaria consistente per governi e imprese. Qualche indicatore: il PIL tedesco ha registrato segno negativo nel secondo trimestre, per la prima volta dal 2007 la curva dei rendimenti USA e GB si inverte (ovvero i titoli a dieci anni pagano più di quelli a due), la crescita del PIL cinese rallenta ad un ritmo più basso rispetto agli ultimi anni, le borse europee sono quasi tutte in calo. Secondo il Financial Times del 4/9, raramente il mondo è stato peggio equipaggiato per combattere una recessione visto che i tassi di interesse sono a zero e le banche centrali hanno pochi margini per rispondere, la conclusione è pessimistica: “la prossima recessione globale molto probabilmente sarà traumatica e improvvisa”. La battaglia dei dazi ma ancora di più lo zigzag della Casa Bianca, ovvero l’incertezza strategica che domina l’amministrazione Trump, non aiuta a diradare il clima di inquietudine. A questo occorre sommare altri focolai di crisi già aperti o potenziali che minacciano l’andamento dell’economia globale, basti pensare al Golfo Persico, al mar Cinese Meridionale o all’Argentina. In Europa ha preoccupato in agosto la crisi politica italiana che pare ora avviata alla temporanea soluzione con la definizione del nuovo governo, ma resta allarme per il rallentamento economico tedesco e soprattutto turba non poco la Brexit inglese.

I Gruppi italiani  nella ricerca di Mediobanca

Dall’ultima edizione dell’annuario di MEDIOBANCA, che raccoglie i profili dei primi 50 gruppi quotati italiani, emerge l’indebolimento della grande industria italiana nel contesto europeo. Il fatturato medio dei primi dieci gruppi manifatturieri è pari in Germania a 82 miliardi di euro, in Francia a 38, in Gran Bretagna a 19 e in Italia si ferma a 8 miliardi. Il peso sul PIL è in Germania pari al 24.1%, in Francia al 15.9%, in Gran Bretagna all’8% e in Italia al 4.6%.

Negli ultimi 5 anni i big player della manifattura dei quattro paesi considerati hanno realizzato in totale investimenti materiali pari a 578 miliardi di euro e di questi solo 15 sono riferibili ad investimenti italiani. Tra il 2014 e il 2018 gli investimenti dei TOP 10 della manifattura sono cresciuti rispettivamente del 33% in Francia e Germania, del 19,2% in GB mentre sono diminuiti del 9% in Italia. Ricapitoliamo alcuni limiti strutturali della economia italiana: pochi grandi gruppi proiettati sul mercato mondiale, forte presenza di piccola e media industria, bassi investimenti. Se a questo aggiungiamo i contraccolpi demografici dovuti all’invecchiamento della popolazione e alla scarsità di giovani qualificati, appaiono evidenti i principali motivi che producono un ristagno della produttività. La soluzione non è e non può essere nell’ulteriore contenimento dei salari.

Nuovi intrecci e nuove sfide

La “rivoluzione” nel settore auto alimenta e si combina con la transizione energetica, ma coinvolge anche la ristrutturazione delle telecomunicazioni, aumentando le incognite, gli intrecci ed i fattori di indeterminazione.

Ad esempio in Gran Bretagna le colonnine di ricarica per le auto elettriche, decuplicate in 7 anni, hanno superato le tradizionali pompe di benzina. Per far fronte al probabile aumento della domanda di energia elettrica l’Inghilterra ha avviato investimenti per nuove centrali nucleari. Ma il blackout di Londra nei primi di agosto – il peggiore degli ultimi 10 anni – ha creato disagi che pongono una serie di domande. Circa un milione di case senza elettricità, passeggeri bloccati sui treni, semafori spenti, un ospedale a Ipswich e l’aeroporto di Newcastle senza energia. Passare a fonti rinnovabili, supplire ai picchi di energia per la ricarica dell’auto elettrica, una crescente dipendenza di dati e sistemi di comunicazione hi-tech rendono l’economia più vulnerabile anche a brevi interruzioni di energia per cui occorre investire nelle smart grid e nella sicurezza delle infrastrutture.

Le dimensioni contano

L’auto elettrica molto probabilmente sarà una realtà, visto il fiume di miliardi che si stanno investendo. Tuttavia i tempi di assorbimento del mercato potrebbero essere più lunghi del previsto. A luglio le vendite di auto elettriche nel mondo per la prima volta sono in calo, a causa dell’incertezza in Europa e America ma soprattutto per il taglio dei sussidi in Cina che è il primo mercato al mondo. (Milano finanza del 4 settembre).

I nuovi limiti di emissioni della CO2 imposti della UE a partire dal 1 gennaio 2021 metteranno a rischio di multe salate i gruppi produttori di automobili che hanno iniziato in ritardo il processo di elettrificazione. In questa fase di transizione gioca un ruolo importante anche l’intervento pubblico dei governi e dei sindaci nei termini di incentivi all’acquisto e di divieto alla circolazione.

La scommessa non è più sul “se” ma sul “quando”, con evidenti ripercussioni sulla redditività delle imprese. Quindi il dilemma dei costruttori auto è evidente, devono investire miliardi sull’elettrico ma senza avere chiarezza sui tempi di un ritorno. Siamo certi che anche un vasto armamentario di ideologie “verdi” sarà impiegato in questo confronto per indirizzare investimenti e scelte dei consumatori.

La svolta dell’auto elettrica comprime i margini a causa della necessità di ingenti investimenti e questo spingerà a processi di fusione o di alleanze. Toyota si allea con Suzuki per l’auto a guida autonoma, dopo che Ford si è alleata con Volkswagen per la condivisione di piattaforme MEB.

Anche nel settore delle telecomunicazioni il grande risiko del 5G produce una spinta alla concentrazione che unisce persino storici concorrenti: a giugno Wind-Tre e Fastweb annunciano di mettere assieme il know-how per la rete 5G in Italia, ad agosto Telecom e Vodafone mettono in comune le torri di trasmissione, ai primi di settembre Iliad ha firmato un accordo con Nokia.

Non si può restare soli

Emerge da quanto detto un principio base: quando la concorrenza e lo scontro si fa più duro non si può restare da soli, nemmeno se si è già un grande gruppo. La guerra dei dazi USA e Cina e il rallentamento auto sembrano le prime cause che minacciano la recessione in Germania. Gli annunci dei tagli prospettati da alcuni grandi gruppi tedeschi coinvolti in un forte processo di ristrutturazione sono consistenti.

Se la Germania si prende il raffreddore l’Italia può buscarsi la polmonite economica” è la considerazione de La Stampa dell’8 agosto ipotizzando il rischio di un potenziale effetto domino. Quali conseguenze si dispiegheranno in termini occupazionali per i gruppi italiani è una questione aperta. Come coordinamento riteniamo che proprio di fronte ai giganteschi mutamenti in atto non si può stare soli nemmeno come singoli lavoratori se vogliamo difendere al meglio le nostre condizioni. La coalizione tra lavoratori va rafforzata, l’impegno diretto in prima persona per una rivendicazione collettiva è inaggirabile. La prospettiva di costituire un effettivo sindacato europeo è l’orizzonte per cui ci sentiamo impegnati a lavorare.


LEONARDO DA VINCI INGEGNERE  RINASCIMENTALE

A 500 anni dalla morte non possiamo non ricordare il genio e l’inventiva di Leonardo Da Vinci (1452-1519), emblema degli ingegneri rinascimentali. Come ingegneri e tecnici rileviamo l’enorme contributo dell’artista-ingegnere nell’ideazione di macchine e strumenti nei più svariati campi della produzione: dal tessile all’edilizia, dall’agricoltura all’idraulica (il sistema dei navigli di Milano) alla meccanica (carro a tre ruote, bicicletta), fino agli studi sul volo umano (tra cui il paracadute) e nel settore militare (carro armato, elicottero, sottomarino). In questo senso il genio vinciano è stato un anticipatore.

Contemporaneamente, vogliamo portare la riflessione sulle forze sociali e materiali che in ogni epoca “producono” degli anticipatori. Un proverbio tedesco dice: nessun maestro è mai caduto dal cielo.

Tra Medioevo e Rinascimento l’introduzione di innovazioni meccaniche, dall’accoppiamento di ruota dentata e pignone, al sistema biella-manovella, fino ad arrivare all’introduzione della vite senza fine, ha permesso una graduale trasformazione delle modalità del lavoro e della produzione, che dal gesto manuale si sono evolute verso la meccanizzazione dei processi. Le prime macchine da lavoro disegnate da Leonardo sono in continuità con la tradizione medievale. Leonardo si nutre delle conoscenze dei classici: Vitruvio per l’architettura, Aristotele per la filosofia, Archimede per la fisica, Euclide e Fibonacci per la matematica, Vegezio per le tecniche militari, Giotto e Cimabue per la pittura, John Peckham autore del trattato Perspectiva Communis per l’ottica e la geometria. Le sue capacità di precursore poggiano quindi sulle spalle di altri giganti che lo hanno preceduto. Inoltre Leonardo farà il suo apprendistato per ben dieci anni nella bottega del Verrocchio, imparando l’anatomia, la prospettiva, la fusione dei metalli, il calcolo algoritmico. Non solo, il suo genio di artista-ingegnere è costantemente stimolato da un’epoca che procrea giganti in tutti i campi: in architettura si confronta con i lavori di Filarete, Leon Battista Alberti e Brunelleschi, per la scultura ci sono Donatello e Michelangelo, per la pittura Masaccio, Raffaello e Botticelli, per la matematica Luca Pacioli, per la filosofia Marsilio Ficino e Pico della Mirandola. Il genio vinciano vive in un’epoca che esprime uomini poliedrici che, come lui, brillano in molte discipline, perché non sono ancora vincolati alla divisione del lavoro che caratterizzerà il passaggio dall’artigianato all’industria.

La grande conquista degli ingegneri rinascimentali è l’osservazione della natura, che diventa il punto di partenza del metodo scientifico. Nel materiale documentario lasciatoci è spesso difficile distinguere tra concreto e fantasia nel lavoro di questi progettisti. Per realizzare delle macchine vere e proprie il metodo era posto, ma i “tempi sociali” non erano ancora maturi.

Nella scienza e nella tecnica di Leonardo predomina la natura artigianale, corrispondente al modo di produzione del periodo; con la formazione della grande industria la scienza diviene un’impresa organizzata.

La scienza è una forza produttiva sociale subordinata ai rapporti di produzione e di potere predominanti nelle differenti epoche storiche. La novità dei secoli XIX e XX è stata la sua industrializzazione. Con lo sviluppo del modo di produzione capitalistico e la formazione degli Stati nazionali le conquiste tecnologiche e scientifiche diventano in modo crescente un indicatore di potere e prestigio nazionali (Peter GalisonBruce Hevly, “Big Science”, 1992). Oggi, con il pieno sviluppo del mercato mondiale, l’industrializzazione della scienza ha raggiunto un livello di internazionalizzazione tale per cui è quasi impossibile stabilire la provenienza nazionale di un’invenzione o di una scoperta.

Parallelamente scoperte e invenzioni tecnologiche non sono più il frutto geniale di un singolo, ma il risultato di un lavoro di equipe di scienziati che collaborano in maniera estesa.

Tale cooperazione accelera e migliora lo sviluppo scientifico, nonostante si scontri quotidianamente con la concorrenza del mercato. Nell’epoca dell’industrializzazione della scienza difficilmente ci saranno dei nuovi Leonardo da Vinci, ma proprio per questo lo studio e la conoscenza delle sue anticipazioni ingegneristiche resta un passaggio obbligato per comprendere a fondo la storia della tecnologia di ieri, di oggi e di domani.


L’INGEGNERE NELLA STORIA
Parte IX: Il primo trust americano

Proseguiamo con gli articoli a carattere storico. L’intento, come abbiamo già esplicitato, è quello di fornire spunti di riflessione a proposito della “figura” e della collocazione sociale degli ingegneri nel corso dei secoli. Tappe utili anche per meglio comprendere la situazione attuale.

La conquista del West è un concetto entrato nell’immaginario degli Stati Uniti d’America per rappresentare la progressiva occupazione dei territori ad ovest del Mississippi durante il XIX secolo.

L’enorme sviluppo dei traffici interni, negli anni a cavallo del 1850, indusse le neonate aziende ferroviarie a capire l’importanza di disporre di linee telegrafiche per ordinare la successione dei convogli, resa caotica dall’esistenza di linee a binario unico. L’intreccio diverrà così stretto che le mansioni di agente ferroviario e telegrafico si sommeranno nella stessa persona e saranno svolte nello stesso edificio: la stazione ferroviaria.

Nel 1851 si potevano contare già 50 compagnie telegrafiche variamente intrecciate con le ferrovie, ma quella di Samuel F.B. Morse manteneva una posizione di relativo predominio, controllando i principali brevetti e l’unica linea di comunicazione diretta da New York a Chicago e a New Orleans.

Nello stesso anno però, contemporaneamente alla formazione della Morse-Bain Consolidated, alcuni imprenditori di Rochester formano la New York & Mississippi Valley Printing Telegraph, alla quale la Associated Press concede l’uso del telegrafo scrivente House.

Del gruppo faceva parte anche l’antico rivale di Morse, Henry O’Reilly, ma la figura predominante è ora Hiram Sibley, originario del Massachusetts ma finanziere e immobiliarista a Rochester.

La Western Union Telegraph

La carta vincente sarà giocata riuscendo a strappare Ezra Cornell dalla società Morse per associarlo alla New York & Mississippi.

Cornell, dopo la revoca della concessioni per l’Ovest a O’Reilly, aveva sviluppato una rete di compagnie telegrafiche sui grandi laghi, congiungendo Buffalo a Chicago e New York al lago Erie. Nell’impresa si era associato alle ferrovie Erie Railroad e Lake Shore Railroad, che percorrevano tracciati quasi identici alle sue linee. L’accordo tra Sibley e Cornell privò la Morse-Bain della linea diretta per Chicago e vanificò l’esclusiva nell’uso del brevetto di Morse.

Una spietata guerra dei prezzi e la minaccia di costruire linee concorrenti in accordo con le ferrovie costrinsero anche le superstiti linee ad arrendersi. La combinazione di diverse linee e la loro fusione porteranno nel 1856 alla formazione della WESTERN UNION TELEGRAPH, antenata dell’attuale compagnia americana. (La parola Western marca la consolidazione di varie linee telegrafiche in quello che divenne il punto più occidentale del sistema telegrafico statunitense).

La American Telegraph

Nel 1855 però un’altra concentrazione si era realizzata con la American Telegraph promossa da Cyrus Field e Peter Cooper, che avevano combinato alcune linee del New England e rilevato quelle della Associated Press, assieme ai diritti del brevetto House.

Interessati fortemente nel commercio con l’Europa si erano associati a Moses Taylor, capo della City Bank, principale banca del commercio dei metalli e degli armatori di New York, per stendere un cavo telegrafico transoceanico tra New York, New Foundland e Londra con l’apporto finanziario di capitali inglesi.

Contemporaneamente la American acquistò il brevetto del sofisticato telegrafo scrivente dell’emigrato inglese David E. Hughes e l’anno dopo si accordò con la Western Union per scambiarsi i brevetti e attaccare le restanti linee Morse, gestite da Amos Kendall e Francis O.J. Smith. L’alleanza tra la Western e la American, e soprattutto tra i gruppi che le sostenevano, fece capitolare la Morse-Bain Consolidated che in breve fu sconfitta e spartita tra le due società. Samuel Morse, dopo una breve collaborazione con l’impresa del cavo transatlantico, uscirà di scena dopo aver arricchito molti personaggi tranne se stesso. Un destino comune per molti scienziati e inventori dell’era capitalistica.

Nasce il primo trust americano

Dopo la combattuta concentrazione del decennio 1844-1854 le telecomunicazioni americane sono dominate dal monopolio tra la Western Union e la American Telegraph che stipuleranno un accordo di cartello per scambiarsi i brevetti, spartirsi le zone di influenza, fissare le tariffe e controllare l’informazione giornalistica. Nel 1860 però la Western rompe la clausola del cartello che stabiliva la costruzione comune di un telegrafo transcontinentale e inizia a stendere una linea attraverso le grandi pianure. La rottura è solo uno degli episodi della lotta economica e politica che porterà alla guerra civile americana.

È un esempio di come la concentrazione porta al monopolio, ma ciò non esclude che possa avvenire una nuova spartizione, non appena sia mutato il rapporto delle forze in conseguenza dell’ineguaglianza di sviluppo per effetto di guerre, di crack, ecc.

Tra il 1840 e il 1860, con enormi diversità tra regioni e Stati, la lunghezza delle ferrovie in America si decuplica, da 3.000 a 30.000 miglia circa, mentre il telegrafo supera le 50.000 miglia.

Ineguale sviluppo ferroviario e telegrafico

Il Nord-Est (New England e Middle Atlantic) arriva a 9.500 miglia di binari, quintuplicando l’estensione delle prime ferrovie e esprimendo i due principali gruppi telegrafici.

Il Sud nel suo complesso decuplica le ferrovie, ma le sue linee telegrafiche cadono nell’orbita dei colossi di New York e Rochester.

Gli Stati del Middle West e dei Grandi Laghi, partendo praticamente da zero, compiono invece un balzo significativo arrivando a 10.236 miglia di rotaie e unificando le proprie linee telegrafiche nella Wade Telegraph. Il salto è il risultato dello sviluppo economico.

L’agricoltura e la nascente industria della regione si legano così sempre di più alle banche e alle società dell’Est, dalle quali ricevono capitali e macchinari in cambio di prodotti agricoli e redditizie occasioni di investimento.

Il mutamento porterà alla rottura dell’unità di interessi nell’espansione territoriale che legava l’Ovest al Sud e che si esprimeva nel partito Democratico, creando le condizioni per la nascita del partito Repubblicano.

La lotta per la transcontinentale

La direttrice portante della precedente alleanza correva lungo l’arteria di trasporto fluviale del Mississippi. L’emergere della direttrice Ovest scompagina questa e altre eterogenee coalizioni scatenando, come era successo per i centri della Costa Atlantica, la concorrenza tra le principali città lungo il fiume e la ferrovia: Chicago, Saint Louis, Memphis e New Orleans.

Sono proposti vari itinerari di ferrovia. Le elezioni presidenziali del 1860 sanciscono l’alleanza tra l’Ovest e l’Est, salvo parte di New York, e la vittoria dei Repubblicani di Abramo Lincoln nel cui programma figurano sia la ferrovia che il telegrafo transcontinentale da Chicago. La linea della coalizione Lincoln è appoggiata da Stephen Douglas, senatore dell’Illinois e capo dei Democratici Nordisti che si staccano dai Secessionisti del Sud.

Douglas, avvocato della Illinois Central e artefice politico delle sue immense concessioni terriere e finanziarie statali, era anche l’estensore del disegno di legge Kansas Nebraska Act, che ammetteva la schiavitù nei territori occidentali per guadagnare l’assenso del Sud ad una linea ferroviaria transcontinentale da Chicago.

La Western Union entra in guerra

Anche Lincoln, come Douglas, era sul libro paga della Illinos Central come avvocato e lobbysta, ma era anche il legale della Chicago, Rock Islands e Pacific, ferrovia del finanziere del Massachusetts Thomas Durant, poi alla testa della Union Pacific.

La rottura del cartello telegrafico riflette lo scontro tra le direttrici ferroviarie: la Western propone una linea trascontinentale da Chicago mentre la American la vuole sudista da New Orleans.

La Western, capeggiata da Hiram Sibley e Ezra Cornell, si inserisce nella linea di Lincoln e Douglas e ottiene il contratto per la transcontinentale e un finanziamento di 40.000 dollari. Sibley organizza due separate compagnie che partendo da Omaha nel Nebraska e da S. Francisco uniranno i cavi telegrafici a Salt Lake City nello Utah, sullo stesso percorso poi seguito dalla Union e dalla Central Pacific Railroad.

La linea è terminata in pochi mesi e il primo messaggio reca l’adesione della California all’Unione, manifestata dal giudice dello Stato Stephen J. Field, fratello del Field del cavo transatlantico, e dal governatore Leland Stanford, grande azionista della Central Pacific e del telegrafo californiano.

Con la guerra di secessione americana le linee telegrafiche Nord-Sud sono recise colpendo soprattutto le American mentre Ason Stager, general manager della Western, dirige le comunicazioni militari del Nord e costruisce 15.000 miglia di linee, poi ottenute in dono dalla Western come ricompensa dei servigi resi. Il lievitare della domanda telegrafica militare e statale arricchirà gli azionisti della Western che vedranno più volte raddoppiare i profitti durante il conflitto e aumentare sette volte il valore nominale delle azioni.

Concentrazione della produzione, fusione del capitale bancario e industriale, nascita dei monopoli e spartizione dei mercati sono alcuni dei principali contrassegni dell’imperialismo fin dalle origini. Il mondo di oggi conferma in pieno questa dinamica.


DA OIL COMPANY A ENERGY COMPANY GLOBALI

Nel giro di pochi anni le grandi Oil Company occidentali (Shell, BP, Exxon etc) così come le grandi società statali come quelle mediorientali o russe (Aramco, Adnoc, Gazprom etc.) potrebbero dover mutare profondamente la loro natura pena forse la stessa sopravvivenza.

La ragione di tutto ciò risiede nella cosiddetta transizione energetica: elettrificazione dell’economia (inclusa l’auto elettrica), fonti rinnovabili, decarbonizzazione delle fonti energetiche per ridurre l’emissione di CO2.

La questione del surriscaldamento globale, vero o presunto tale, è impugnata nella lotta tra i grandi gruppi e tra gli Stati e ha effetti reali, di lungo periodo e molto sensibili.

Al pari dell’industria automobilistica, impegnata in un mutamento altrettanto epocale, sarà fondamentale per le grandi Oil Company l’adeguarsi alla velocità dei cambiamenti del mix energetico. Ma ovviamente il calcolo di questa velocità è un esercizio molto complesso e ogni azienda si posiziona in modo diverso in questa partita.

Il petrolio ancora decisivo

Le decisioni delle Oil Company avranno come base comune di partenza le proiezioni sul consumo di petrolio che, secondo tutti i report, vedono un picco nella prossima decade e poi un declino costante. Il report 2019 Energy & Carbon Summary di ExxonMobil considera due sviluppi: uno scenario “medio” che prevede un cambiamento del mix energetico graduale tale da mantenere l’aumento della temperatura media annuale nell’intorno dei 2°C al 2040 e uno scenario “hard” che consentirebbe di tenere l’aumento ben al di sotto di 2°C. Lo scenario hard implicherebbe un declino dei consumi a 53 milioni di barili al giorno (BPD). Lo stesso report evidenzia che, in assenza di investimenti, la produzione giornaliera di petrolio calerebbe a 17 milioni BPD nel 2040 a causa dell’esaurirsi dei pozzi attualmente in produzione. Quindi saranno comunque necessari ingenti investimenti nel settore Oil & Gas per mantenere i livelli di produzione anche nel quadro dello scenario “hard”. Tali investimenti oscillano tra i 13.000 e i 21.000 miliardi di dollari da qui al 2040. Le scelte delle grandi Oil Company necessariamente saranno condizionate da queste previsioni.

Al momento gli indirizzi sembrano, per la maggior parte dei casi, dettati dalla prudenza. Le grandi aziende statali mediorientali e russe sembrano poco interessate alla transizione energetica e non prevedono alcun cambio del loro modello di business.

Strategie anglosassoni…

Le Oil Company occidentali, soprattutto anglosassoni, come ExxonMobil, BP o Chevron stanno implementando una serie di passi per ridurre la loro impronta sulla emissione di gas serra mantenendo comunque il loro modello di business. I passi sono:

  1. lo spostamento graduale dalla produzione di petrolio alla produzione di gas del cui consumo si prevede una crescita costante e il cui impatto sui gas serra è del 70% più basso;
  2. ridurre o eliminare il cosiddetto flaring negli impianti produttivi, cioè la prassi di bruciare il gas in eccesso sempre presente durante i processi di lavorazione del petrolio;
  3. eliminare tutte le perdite di gas dagli impianti di produzione (gli idrocarburi gassosi hanno un effetto serra molte volte superiore a quello della CO2);
  4. espandere la produzione di biofuel che, in teoria ha un impatto zero (più realisticamente ridotto del 50% rispetto ai combustibili fossili) visto che la loro combustione rimette in atmosfera la CO2 assorbita dalle piante con la fotosintesi;
  5. investimenti nel carbon capture and storage (CCS) cioè la tecnologia che permette di catturare la CO2 prodotta dalla combustione e il suo immagazzinamento in depositi fossili (per esempio giacimenti esauriti).

…ed europee

Molto maggiore delle consorelle anglosassoni risulta l’impegno delle Oil Company europee nel campo delle rinnovabili. Dal 2016 le Major europee hanno fatto ben 148 acquisizioni di società e start up attive nel campo delle energie rinnovabili. Equinor, ex Statoil, ha annunciato di voler investire tra il 15% e il 20% del proprio budget in energie rinnovabili; Shell ha fatto parecchie acquisizioni come Sonnen, una società tedesca specializzata nella produzione di batterie; New Motion, una delle più grandi società europee di ricarica veicoli elettrici; Total ha acquisito il 23% dell’operatore di energie rinnovabili Eren e ha acquisito per 1 miliardo di dollari il costruttore di batterie Saft Group.

In certi casi l’ambizione è ancora più grande. Le Oil Company europee puntano a diventare Energy Company in senso lato ed espandere il loro perimetro alla produzione di energia elettrica e alla loro distribuzione entrando in diretta concorrenza con le utility tradizionali. Total per esempio punta a erodere la quota dell’80% detenuta da EDF in Francia nella produzione di energia elettrica; Shell ha dichiarato di puntare a diventare entro il 2030 il maggior produttore di energia elettrica del mondo (Financial Times 13/3/2019).

Al di là delle dichiarazioni ideologiche fatte ad uso di un’opinione pubblica più sensibile ai problemi ambientali, ad oggi, in ogni modo, la forza delle Oil Company è basata sulla produzione di petrolio, da far bruciare possibilmente lontano da casa propria. Equinor ha iniziato la produzione dal campo offshore di Sverdrup, il più grande campo europeo con una produzione giornaliera di 660.000 barili. Total conferma e rilancia i suoi investimenti nello Shale gas USA (EnergyPost settembre 2018). Shell precisa che la sua ambizione di primazia nel campo della produzione di energia elettrica avrà senso solo se potrà garantire un ritorno dell’investimento dell’8-12% (quello attuale del settore Oil & Gas).

L’incognita Cina

In questo scontro globale un attore determinante si trova in Asia. Dal 2000 al 2010 è stata la Cina a trainare i consumi globali di petrolio. Sarà ancora sicuramente la Cina a imprimere un balzo nei consumi di gas quando implementerà la sostituzione delle centrali a carbone con quelle a gas. Sarà sempre la Cina ad essere decisiva nell’elettrificazione dell’auto visto che la proiezione di vendite sul mercato cinese al 2030 è di 30-35 milioni di veicoli, pari o superiore alla somma del mercato americano ed europeo sommati.

Un mutamento così gigantesco non potrà non avere ripercussioni sui lavoratori. Le grandi Oil Company sono società ad alta specializzazione dei suoi impiegati. Basti per esempio un dato: ExxonMobil impiega nella sola divisione R&D 2.200 scienziati e 3.000 ingegneri.

Quindi saranno proprio queste fasce di lavoratori altamente specializzate ad essere colpite.

Avere coscienza di questi processi è il primo passo per non esserne travolti. Il secondo è rispondere con l’organizzazione, la coalizione di noi lavoratori.


L’INGEGNERE NELLA STORIA
Parte X: La prima spartizione americana

Proseguiamo con gli articoli a carattere storico. L’intento, come abbiamo già esplicitato, è quello di fornire spunti di riflessione a proposito della “figura” e della collocazione sociale degli ingegneri nel corso dei secoli. Tappe utili anche per meglio comprendere la situazione attuale.

Lo sviluppo dell’industria elettrica e delle telecomunicazioni negli Stati Uniti degli ultimi vent’anni dell’800 non fa eccezione alla regola della concentrazione e della fusione del capitale bancario con quello industriale. In particolare la lotta si focalizza attorno alla proprietà dei brevetti in campo telegrafico, telefonico e dello sfruttamento dell’energia elettrica.

A scendere in campo sono i principali gruppi dell’epoca che si scontrano tra loro in un settore, alleandosi contemporaneamente in un altro al solo fine di massimizzare il profitto. La risultante del composito parallelogramma di forze in continuo movimento troverà una temporanea stabilità nella spartizione di fine secolo, operata da tre grandi combinazioni di magnati. A Jay Gould sarà così riservato il telegrafo, ai banchieri bostoniani il telefono e a John Pierpont Morgan la generazione e l’illuminazione elettrica.

Il sistema dei brevetti americano

Negli Stati Uniti la questione dei brevetti è trattata nella Costituzione, che prevede la protezione dell’invenzione dalle imitazioni non autorizzate per un periodo di 17 anni. L’intento manifesto dei legislatori era stato quello di fornire un incentivo agli inventori americani, in un periodo nel quale la giovane nazione dipendeva in tutto dall’Europa. Ma, come accade sovente nella storia, un determinato fatto porta al suo interno anche il risultato contrario, e nel nostro caso ciò appare più chiaro quando lo stesso istituto del brevetto servirà ai magnati per espropriare i singoli inventori della loro scoperta, in cambio del finanziamento per la difesa legale, la ricerca e la commercializzazione dei prodotti.

Lo storico americano Alfred Noble ha quindi ragione quando sostiene che la “forma” giuridica della proprietà dell’invenzione, ideata per favorire la concorrenza, si tradurrà nel suo opposto e cioè nello strumento migliore per controllare la concorrenza stessa da parte dei gruppi monopolisti (cfr. D. Noble, “Progettare l’America”, Einaudi, 1987).

Nel 1877 muore il “Commodoro” Cornelius Vanderbilt e il suo impero finanziario e ferroviario, valutato in 100 milioni di dollari, passa al figlio primogenito William Henry. Questi si trova a fronteggiare uno scontro con gli altri magnati che dominavano le ferrovie concorrenti dalla costa atlantica sino al raccordo con la transcontinentale per la California. Scontro che era sfociato in una guerra dei prezzi fino ad abbassare il costo del biglietto da New York a Chicago prima a 7 e poi a 1 dollaro.

Guerra dei prezzi tra i magnati

Jay Gould, avversario del Commodoro, si era impadronito delle principali ferrovie dell’Ovest ed era penetrato nella Union Pacific, ma si era accordato con lo stesso Vanderbilt per far transitare i suoi treni sulla New York Central. Ora però minacciava di dirottare i suoi convogli sulla Pennsylvania Railroad o sulla Baltimore & Ohio se non gli fossero state aperte le porte del sistema ferroviario Vanderbilt.

Per aumentare la pressione Gould taglia del 40% le tariffe telegrafiche della sua Atlantic & Pacific, togliendo clienti alla Western Union, e orchestra una campagna giornalistica contro l’impero del Commodoro, al fine di farne l’obiettivo del risentimento popolare contro i baroni delle ferrovie. Risentimento cresciuto e sviluppatosi a seguito della forte ondata di scioperi conseguente al taglio del 10% dei salari, operato da tutte le ferrovie per far fronte agli strascichi della crisi del 1873.

Nasce il telefono e mutano le alleanze

Contemporaneamente alla morte di Cornelius Vanderbilt si forma la Bell Telephone di Boston, che commercializza i brevetti telefonici di Alexander Graham Bell, con il sostegno delle principali banche bostoniane.

Di fronte all’immediata concorrenza del nuovo ritrovato tecnologico la Western Union e la Atlantic & Pacific reagiscono stipulando un accordo di cartello che pone fine alle ostilità e la Western riassolda Thomas A. Edison al fine di ottenere un brevetto alternativo nel campo telefonico. La tregua tra Vanderbilt e Gould si estende anche al campo ferroviario, dove si accordano per scalare la Chicago e Northwestern, nella quale entrano lo stesso Gould e i soci di Vanderbilt. La pressione di Gould però non si allenta e attraverso un’abile lobby riesce a far mettere sotto inchiesta da parte dell’amministrazione di New York il board della New York Central, che viene minacciata di forti tassazioni. W. H. Vanderbilt, attaccato nuovamente su più fronti, si rivolge al banchiere di fiducia John P. Morgan per studiare un piano di salvataggio. Morgan nel 1879 libera William Henry dal “peso” dell’87% delle azioni dell’impero paterno e ne colloca segretamente il 50% sul mercato e in particolare a Londra tramite la J.S. Morgan e i banchieri alleati. Al termine dell’operazione J.P. Morgan si trova a dover gestire sempre più direttamente gli affari ferroviari del defunto Commodoro, visto che il rampollo preferirà sempre più interessarsi ai cavalli piuttosto che alle locomotive. Nel board della New York Central però sono ora penetrati Cyrus Field e Solon Humpreys, soci e fiduciari degli interessi di Gould, il quale a poco a poco si inserirà anche nella Western Union.

Brevetti e settori divisi tra i magnati

Nel novembre dello stesso anno dell’operazione finanziaria di Morgan, Edison, che aveva rotto i ponti con le società di Gould, realizza i primi brevetti per l’illuminazione elettrica a incandescenza. Morgan è tra i primi a conoscere i risultati delle sue ricerche e a finanziarne lo sviluppo, naturalmente in cambio di parte dei diritti sulle invenzioni. Nello stesso mese la Western e la Bell, dopo una durissima lotta sui brevetti, sfociata in una miriade di cause legali, arrivano a un accordo di cartello che lascia alla Western il controllo sulle linee e i brevetti telegrafici e alla Bell quelli telefonici, con l’impegno a non sconfinare nei rispettivi campi per 17 anni, cioè fino al 1892.

La concorrenza in campo elettrico proseguirà invece in tutti i campi e la superiorità della Edison è sfidata dalla Westinghouse, e dalla Thomson Houston, collegata in vario modo agli avversari bostoniani proprietari dei brevetti telefonici. La lotta avrà una prima sistemazione nel 1892 con la fusione della Thomson Houston nella General Electric, sottoposta al controllo del gruppo di Morgan.

I bostoniani resteranno prominenti con la Bell in campo telefonico mentre Gould, che era riuscito a guadagnare il controllo totale della Western Union forse in seguito alla scelta “elettrica” di Morgan, padroneggerà il settore telegrafico ma sarà presto attaccato da altri gruppi che riapriranno la corsa per una nuova spartizione delle sfere di influenza.

LA FOTO DEL SECOLO

A tre anni da quella che era stata definita la scoperta del secolo (la prima misurazione di onde gravitazionali prodotte dallo scontro di due buchi neri), è stata scattata la foto del secolo. Per la prima volta nella storia è stato “fotografato” un buco nero.

L’evento ha avuto una risonanza mondiale, tanto da essere annunciato in sei conferenze stampa contemporanee in Europa, Usa, Cile, Cina e Giappone.

I buchi neri sono di solito stelle morte il cui collasso gravitazionale, dovuto alla fine della combustione termonucleare, schiaccia la materia in uno spazio ristrettissimo (come se la massa del nostro Sole, che ha un raggio di circa 700 mila Km, condensasse in una sfera di 2 Km). Sono stati chiamati così per la prima volta dal fisico statunitense J.A.Wheeler, perché la forza di gravità è così potente da inghiottire qualunque cosa anche la luce. Gli astrofisici li studiano perché presentano caratteristiche “limite”, la materia condensata nel buco nero non è più un aggregato di atomi (già lo stadio precedente al buco nero detto stella di neutroni, è composto appunto da neutroni che, insieme ai protoni, formano i nuclei atomici). Inoltre la gravità è così forte che lo spazio e il tempo, intorno al buco nero, si “curvano” producendo fenomeni estremi ancora sconosciuti. Per usare le parole di Wheeler: «La materia dice allo spazio come curvarsi, lo spazio dice alla materia come muoversi».

Il buco nero che è stato fotografato non è di formazione stellare, ossia non proviene dalla morte di una stella (come i buchi neri il cui scontro genera onde gravitazionali), ma è un cosiddetto buco nero supermassiccio, di quelli che si trovano al centro delle galassie, in questo caso la Messier 87 nella costellazione della Vergine. I buchi neri galattici sono molto più grandi e massivi di quelli stellari e sono il risultato dell’accumulo di materia che cade al centro della galassia per effetto della gravità e della rotazione della galassia stessa.

L’oggetto in questione dista dalla Terra 55 milioni di anni luce, ovvero 520 mila milioni di miliardi di Km, ha una massa pari a 6,5 miliardi di volte quella del nostro Sole, un diametro più grande dell’orbita di Saturno (1,44 miliardi di Km), e l’“orizzonte degli eventi” (cioè la distanza oltre la quale qualunque cosa viene risucchiata dall’enorme forza di gravità del buco nero) misura circa 40 mi-liardi di km, cioè poco meno della distanza tra Sole-Nettuno.

Essere riusciti a “fotografare” un fenomeno del genere rappresenta un’impresa di ingegneria osservativa senza precedenti, così come è senza precedenti il lavoro scientifico, tecnologico, industriale e organizzativo che l’ha resa possibile, al punto che il direttore del progetto, Stepherd Doeleman, ha dichiarato: «Abbiamo visto quello che pensavamo fosse invisibile, abbiamo ottenuto qualcosa di impensabile solo una generazione fa».

Un’impresa collettiva internazionale

Il progetto si chiama Event Horizon Telescope (EHT), ovvero telescopio dell’orizzonte degli eventi.

Lo straordinario risultato è frutto di un progetto decennale che ha visto mettere insieme 10 radiotelescopi sparsi nei cinque continenti (Antartide, Hawaii, Messico, Arizona, California, Cile, Spagna, Francia). Sono state mobilitate 13 istituzioni dagli Stati Uniti, all’Asia, all’Europa, oltre 200 ricercatori provenienti da 40 paesi e appartenenti a 60 istituti di ricerca e migliaia di tecnici che l’hanno fatto funzionare. Una collaborazione mondiale mai vista prima.

Le dimensioni e gli aspetti tecnologici

La fisica ci dice che per riuscire ad osservare un oggetto molto lontano occorre un telescopio con una risoluzione angolare molto alta.

La risoluzione di un qualunque strumento ottico è la distanza minima che due punti devono avere per potere apparire separati, ed è proporzionale al rapporto tra la lunghezza d’onda usata per l’osservazione (luce visibile, infrarosso, microonde, onde radio, ecc.) e il diametro del telescopio.

Dunque più è piccolo l’angolo formato dall’osservatore e i due punti distinguibili, più l’oggetto sarà lontano. Per fotografare il buco nero in questione si sono usati dei radiotelescopi, ossia telescopi che “guardano” usando le onde radio. La scelta delle onde radio è quasi obbligata perché queste riescono ad oltrepassare i gas e le polveri che si frappongono sulla linea di vista e al tempo stesso offrono una risoluzione angolare altissima, cioè permettono di vedere molto lontano. In particolare si è scelto di utilizzare una lunghezza d’onda di 1,3 mm (corrispondenti alla frequenza di 230 GHz).

In questa impresa, però, si è fatto molto di più: 10 radiotelescopi sparsi su tutto il globo sono stati messi in sincronia in modo tale da ottenere un unico radiotelescopio delle dimensioni della Terra. Impresa non facile perché ogni telescopio ha caratteristiche proprie e deve essere equipaggiato con la stessa strumentazione, in particolare corredato di orologi atomici in grado di sincronizzare con alta precisione le osservazioni di tutti i telescopi. La tecnica usata è nota: si chiama Very Large Baseline Interferometry e raggiunge una risoluzione di 20 microsecondi d’arco, che equivale a distinguere una pallina da tennis sulla Luna, ma non era mai stata usata per un numero così grande di telescopi e a tali distanze. Inoltre i radiotelescopi utilizzati non sono oggetti “singoli”: ad esempio Alma (Atacama Large Millimeter Array), situato in Cile nel deserto di Atacama a 5100 metri di altitudine, è composto da 66 antenne di alta precisione, 50 parabole di 12 metri di diametro ciascuna ed ha un dispositivo che lo rende simile ad un radiotelescopio di ben 84 metri di diametro.

Come si può “vedere” un buco nero?

Ciò che è stato immortalato è l’ombra del buco nero, o meglio l‘orizzonte degli eventi, cioè quella regione dello spaziotempo che rappresenta il limite entro cui materia e radiazione sono ineluttabilmente inghiottite. I gas e le polveri interstellari (ma anche stelle, pianeti, ecc) che vengono attratti dal buco nero, quando si avvicinano all’orizzonte degli eventi si surriscaldano e, accelerando, emettono radiazione alla frequenza delle onde radio; formando così una sorta di anello “luminoso”.

L’immagine sembra quella di una ciambella spaziale.

Ciriaco Goddi, segretario del consiglio scientifico del consorzio EHT, ha scritto: «Ciò che si osserva è il plasma incandescente che circonda il buco nero, che grazie alle alte frequenze a cui opera la rete EHT, diventa trasparente ed emette radiazione e rende possibile vedere i confini dell’orizzonte degli eventi».

Tempi, investimenti e big data

Il progetto ha richiesto dieci anni per la sua realizzazione, di cui gli ultimi due passati a studiare i dati numerici raccolti e confrontarli con la teoria. La mole gigantesca di dati vagliati è dell’ordine dei petabyte, cioè milioni di gigabyte (equivalenti a migliaia di milioni di milioni di byte, 1016 byte). Basti pensare che invece di trasmetterli attraverso la Rete, è stato necessario, per ragioni di tempo, trasportarli al centro di calcolo, su dischi rigidi con un aereo. I dati raccolti dai vari telescopi sono stati poi elaborati all’osservatorio Haystack del MIT di Boston, che utilizza un elaboratore composto da circa 800 CPU collegate da una rete a 40 Gbit/s.

Gli investimenti resi necessari sono stati di 28 m$ spesi dai centri americani, 14 m€ da quelli europei.

Conclusione

Ancora una volta in questo secolo è stata verificata sperimentalmente la validità delle Teoria della Relatività Generale di Einstein (1915), che prevede, tra le altre cose, l’esistenza dei buchi neri.

Al contempo osserviamo come queste eccezionali scoperte scientifiche, frutto della cooperazione mondiale di milioni di ingegneri, scienziati e tecnici, siano accompagnate da una gestione irrazionale e caotica delle forze produttive. L’umanità è oggi in grado di compiere “missioni impossibili” come la prima foto di un buco nero situato a distanze che sfidano il senso comune (1.021 Km), ma non riesce ad impedire le atroci morti nel Mediterraneo, non elimina il lavoro minorile non è in grado mettere la parola fine allo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. L’attuale organizzazione economico-sociale imbriglia lo sviluppo della scienza con delle catene che non hanno più senso di esistere.

L’ombra di Einstein: un buco nero, un gruppo di astronomi e la sfida per vedere l’invisibile, S. Fletcher
I buchi neri, A. Marconi
Dove il tempo si ferma, S. Hawking
Buchi neri e salti temporali, K. Thorne