Per l’industria Italiana bilanci e prospettive positive; secondo i dati più recenti di UCIMU (Associazione Macchine Utensili per l’Automazione), nella media annuale del 2017 gli ordini sono cresciuti del 13,7%.
Significa che gli investimenti, anche grazie agli incentivi del piano INDUSTRY 4.0 (di fatto sconti per le aziende), hanno registrato un significativo incremento.
ANIMA (Associazione Imprese Meccanica Varia) ha archiviato il 2017 con il record di 1 MLD di investimenti, segnando un +10.1%. Per le industrie che hanno investito si prevede, quindi, una traduzione in aumento del fatturato per il 2018 (Il Sole 24 Ore 15 febbraio 2018).
SOMMARIO
Titolo | pag. |
La formazione dei “campioni europei” crea “lavoratori europei” | 1-3-8 |
L’ingegnere nella storia (parte VI) | 4-5 |
IG Metall e FIOM: La sindacalizzazione dei tecnici in formazione | 6 |
L’impatto dell’uto elettrica: uno sguardo complessivo | 7 |
LA FORMAZIONE DEI “CAMPIONI EUROPEI”
CREA “LAVORATORI EUROPEI”
Ripresa economica ma gli stipendi restano al palo
Per l’industria Italiana bilanci e prospettive positive; secondo i dati più recenti di UCIMU (Associazione Macchine Utensili per l’Automazione), nella media annuale del 2017 gli ordini sono cresciuti del 13,7%. Significa che gli investimenti, anche grazie agli incentivi del piano INDUSTRY 4.0 (di fatto sconti per le aziende), hanno registrato un significativo incremento. ANIMA (Associazione Imprese Meccanica Varia) ha archiviato il 2017 con il record di 1 MLD di investimenti, segnando un +10.1%. Per le industrie che hanno investito si prevede, quindi, una traduzione in aumento del fatturato per il 2018. (Sole 24 ore 15/2/18).
Anche l’EXPORT nel 2017 registra un +7,4% in valore, e un +3,1% in volume, con un saldo commerciale positivo per 47,5 MLD rappresenta il secondo risultato migliore da inizio statistiche storiche nel 1991. Il surplus per la manifattura è il 2° in Europa dopo la Germania e 5° al mondo (dietro a Cina, Germania, Giappone e Corea). L’export è trainato dal picco FARMACEUTICO con +16%, AUTO +11.,3%, METALLI +8,9% e ALIMENTARE al +7,5%. (Il Foglio 16 febbraio 2018).
L’Italia si conferma il secondo esportatore Europeo dopo la Germania. Dai dati EUROSTAT emerge che le 1180 aziende con oltre 250 addetti esportano più di tutta la Spagna.
La dinamica diseguale dei salari in europa
Ci sono, dunque, condizioni oggettive impugnabili per migliorare le nostre condizioni, ma nonostante queste premesse, per il 2018 negli stipendi dei lavoratori italiani si prevedono riflessi negativi. Secondo le proiezioni del TUC (Confederazione dei Sindacati del Regno Unito), nel 2018 l’Italia con -0,6% e la Gran Bretagna a -0,7% registreranno una variazione negativa dei salari reali, situazione ben diversa si registra nei paesi dell’Est Europa.
È importante quello che sta avvenendo nei paesi dell’Est. Alla Volkswagen di Bratislava, in Slovacchia, i lavoratori hanno scioperato a giugno per sei giorni chiedendo un aumento dei salari del 16%: è il primo sciopero dall’apertura della fabbrica nel 1992 (Financial Times 27 giugno 2017). Nei paesi dell’Europa orientale la crescita salariale è stata ottenuta anche alla KIA – sempre in Slovacchia – e in Ungheria alla Mercedes-Benz e all’Audi. In Polonia, con una disoccupazione al 4,8%, i salari sono cresciuti del 20% dal 2010 e del 2,7% solo nel primo trimestre 2017. A dar forza oggettiva a questa dinamica sono soprattutto due fattori: la demografia e l’emigrazione di massa verso i paesi più industrializzati. Handelsblatt, giornale economico tedesco, scrive che «lentamente si va verso la fine dei paesi del basso salario e della pace sociale». La richiesta di manodopera, specialmente quella qualificata, aumenta il potere di contrattazione dei lavoratori.
Il vasto mercato continentale del mondo del lavoro combina i diversi momenti della ristrutturazione, quindi:
C’è la bassa dinamica salariale dei paesi più sviluppati nell’eurozona lamentata anche dal presidente della BCE Mario Draghi (affinché aumentino i consumi) sollecitazione che contiene una certa dose di ipocrisia, visto che è lo stesso che chiede riforme strutturali, attuate nel segno della “flessibilità” e precarietà del lavoro. Una logica su cui da tempo insiste il mondo dell’impresa è quella della produttività, cioè della divisione e del condizionamento dei lavoratori attraverso lo strumento degli aumenti salariali legati ai risultati aziendali, caso per caso.
C’è la lotta per il posto di lavoro, perché la ripresa si combina con le crisi, e comunque è accompagnata da ristrutturazioni attuate per seguire i settori in espansione. I capitali sono a caccia di prede e i lavoratori pagano il conto con ristrutturazioni aziendali.
C’è la lotta salariale nei paesi dell’Est, proprio negli impianti frutto degli investimenti attuati da grandi gruppi occidentali. Lavoratori dei paesi dell’est visti come coloro che “rubano” il lavoro alle fabbriche dell’Ovest, ma non bisogna credere a questa demagogia. Nella società attuale è illusorio un “trade fair” ovvero un commercio leale e i dazi protezionistici non sono la soluzione. Più salari per i paesi dell’Est, rivendicazioni comuni per i salariati d’Europa, questo permetterebbe un commercio con uguali costi della componente lavoro.
C’è il risultato dei metalmeccanici tedeschi. Con la forza sindacale messa in campo da IG Metall hanno conquistato un buon accordo e possono essere considerati a ragione punto di riferimento dei lavoratori europei. Il risultato è frutto di una lotta che ha riguardato 1.5 milioni di lavoratori. Oltre alle tradizionali fermate di avvertimento, si è arrivati anche allo sciopero di 24 ore consecutive, ore pagate ai lavoratori scioperanti dal sindacato tramite le casse di resistenza. Salario e orario i punti centrali dell’accordo: l’aumento dei salari del 4.3% mensile più una quota di “premio” annuale che verrà consolidata dopo il 2020 più il diritto individuale alla riduzione dell’orario di lavoro settimanale fino a 28 ore per un massimo di 24 mesi prorogabile. Questo è un esempio di comportamento di un forte sindacato che esercita pienamente il suo ruolo. Rivendica per i lavoratori la partecipazione ai vantaggi economici che la congiuntura offre, e si da gli strumenti di lotta per ottenerla. Riportiamo una parte di un significativo volantino utilizzato dall’IG Metall: le richieste non si limitano a considerare l’inflazione, come si tende a fare in Italia, ma guardano anche all’andamento della tendenza produttività del settore (trendproduktivitat gesamtwirtschaft) ed alla componente redistribuzione per i lavoratori (umverteilungs-komponente).
Quindi IG Metall è stata pronta ad utilizzare un’oggettiva situazione favorevole del mercato della forza-lavoro, infatti, secondo i dati dell’Agenzia del lavoro, la disoccupazione in Germania continua a scendere, arrivando a 2,38 milioni, il record dalla riunificazione. È un esempio di condizione favorevole impugnata sindacalmente e tradotta in un risultato positivo.
Aggiungiamo che, pur guardando all’IG METALL come punto di riferimento per la sua capacità, la sua organizzazione e determinazione, vediamo anche il limite del contratto firmato; ha valore solo per le aziende legate all’associazione padronale Gesamtmetall, che riguarda meno della metà del totale dei lavoratori.
Inoltre, noi critichiamo anche l’idea che i lavoratori debbano (e possano) “cogestire” le fabbriche. È un’illusione dura a morire e un evidente paradosso pensare che, stante l’attuale società, i lavoratori dovrebbero cogestire il proprio sfruttamento. Ed è ancora più paradossale pensare di farlo in un periodo in cui la concorrenza globale fra grandi e grandissimi gruppi chiede pesanti ristrutturazioni.
Lavoratori europei nei “campioni europei”
Risulta abbastanza evidente che la RISTRUTTURAZIONE EUROPEA in corso si caratterizza per la creazione di grandi gruppi a dimensione continentale, perché le battaglie si combattono ormai fra colossi continentali, quindi “campioni” industriali europei grandi e forti abbastanza per affrontare il mercato mondiale, caratterizzato da altri giganti.
Riportiamo sotto un estratto dalla rivista Fortune che annualmente stila il rapporto GLOBAL 500, la classifica dei primi 500 gruppi mondiali. La dimensione del fatturato (espresso in mln$) e il numero di addetti mostrano che ci troviamo di fronte a veri e propri colossi.
Cina, America ed Europa si giocano il “podio” praticamente in quasi tutti i principali settori industriali.
La Cina continua nella sua crescita. Ha presentato 1.338 milioni di richieste di BREVETTI (+45%), che equivalgono alla somma di USA, Giappone, Corea del Sud e Germania, le cui domande sono invece in calo. Il piano China Manufacturing 2025 sposta le risorse per lo sviluppo sulla manifattura per trasformare il tessuto industriale cinese dal basso costo all’High Tech e diventare la prima manifattura mondiale globale (Il Sole 24 Ore 15 febbraio 2018).
La concorrenza mondiale tra i gruppi determina processi di fusione e acquisizione. Secondo la Stampa del 19 dicembre, per il 4° anno di fila le Merger & Acquisition nel mondo hanno superato i 3.000 MLD $, con l’UE a 856,3MLD (+16%).
Sono tante le operazioni che potremmo elencare, con protagonisti anche gruppi Italiani, a titolo di esempio possiamo citare: Luxottica-Essilor, Atlantia-Albertis, Prysmian-General Cable, Sanofi-Ablynx, ArcelorMittal-Ilva, Fincantieri-STX France, Alstom-Siemens significativamente denominata l’Airbus dei treni.
La formazione di campioni Europei comporta che importanti quote di lavoratori diventano direttamente colleghi della stessa azienda, o dello stesso settore. Significa che potrebbero anche coordinarsi sindacalmente tramite le rappresentanze sindacali d’azienda, un obiettivo concreto per arrivare ad un Sindacato Europeo.
La realtà pratica del lavoratore europeo
Più in generale, operiamo in un mercato della forza lavoro che per i 28 paesi rappresenta complessivamente circa 200 milioni di lavoratori dipendenti. Uno spazio dove la libera circolazione dei lavoratori è un principio fondamentale dell’UE, sancito dall’articolo 45 del trattato sul funzionamento dell’Unione. In Europa si ha il diritto di cercare lavoro in un altro paese dell’UE, senza bisogno di un permesso di lavoro. Si può vivere in un altro paese per motivi di lavoro, c’è parità di trattamento rispetto ai cittadini nazionali, alle stesse condizioni e con gli stessi benefici sociali e fiscali: possiamo dire che si sono create le condizioni per avere il lavoratore europeo.
Con la libera circolazione, nel 2016 ben 18 milioni di europei vivevano e lavoravano in paesi diversi rispetto a quello di nascita, il 12% in più rispetto al 2014: oggi sono quasi 20 milioni. Soprattutto giovani qualificati Rumeni, Italiani, Greci, Spagnoli e Bulgari si sono spostati dove sono maggiori le possibilità di lavoro e con condizioni migliori, quindi spesso verso la Germania. Si sta assistendo ad una trasformazione della società in senso americano, dove gli spostamenti e la mobilità fra gli Stati sono la regola. Il fenomeno della mancanza di lavoratori, in particolare quelli qualificati, comincia a mostrare i primi segni in tutta la “vecchia” Europa
Da una parte pesa l’inverno demografico, la combinazione tra il calo numerico della popolazione e il suo invecchiamento; le proiezioni demografiche nei prossimi anni prospettano “buchi” nell’ordine di milioni di uomini nelle fasce di età più produttive.
Dall’altra emerge l’aumento costante del mismatch, che misura la differenza fra lavoro offerto e lavoro disponibile. (Vedi grafico a pagina 8).
In questa situazione, in Italia, ogni anno escono dagli ITS (Istituti Tecnici Superiori – percorsi di specializzazione post-diploma) solo 10.000 diplomati, mentre in Germania sono 800.000 studenti, eppure non bastano (La Stampa 29/01/18). Il 45% degli imprenditori tedeschi dichiara di avere difficoltà a reperire le professionalità richieste, problema comune agli imprenditori Francesi. Ci sono, dunque, condizioni oggettive di possibile carenza di forza lavoro impugnabili per migliorare le nostre condizioni.
Il mondo sindacale non si sofferma abbastanza su questi aspetti, sulla forza che la formazione di un mercato unico con 200 milioni di dipendenti potrebbe esprimere, e quindi sulle conseguenti azioni di organizzazione coordinamento, rivendicazioni comuni che sarebbero necessarie. Occorrerebbe concentrarsi su come affrontare la dimensione nuova per la storia del sindacato in Europa, cercando di recuperare il ritardo fra l’organizzazione sindacale ed il mondo delle grandi imprese europee con direzioni sempre più centralizzate. I governi nazionali, seppur in tempi diversi e con terminologie diverse (leggi Hartz in Germania, Jobs Act in Italia, riforme del lavoro in Spagna e in Francia), si muovono con gli stessi obiettivi, perché in sostanza le problematiche sono le stesse. Ieri resistere alla crisi, oggi affrontare il mercato globale in maniera competitiva quindi con più flessibilità e compressione salariale.
Il lavoratore europeo è una realtà, questo vale anche per i nostri colleghi impiegati e tecnici accomunati sempre più dalle stesse contraddizioni, ma parimenti unificati oggettivamente dal mercato della forza lavoro. La comprensione della necessità della coalizione può permettere prospettive e risultati comuni.
L’INGEGNERE NELLA STORIA
Parte VI: L’anello di congiunzione
Proseguiamo con gli articoli a carattere storico. L’intento, come abbiamo già esplicitato, è quello di fornire spunti di riflessione a proposito della “figura” e della collocazione sociale degli ingegneri nel corso dei secoli. Tappe utili anche per meglio comprendere la situazione attuale.
All’inizio del XIX secolo le università americane sono ancora dominate da intellettuali tradizionali ed ecclesiastici. Regna il disprezzo per la scienza sperimentale e la tecnica. Benjamin Franklin aveva fondato la Public Academy nel 1756, ma si era scontrato con le forze tradizionali. Nel 1815, Count Rumford lascia mille dollari annui all’Università di Harvard da destinare all’insegnamento delle scienze fisiche e matematiche, per migliorare le tecniche e favorire lo sviluppo industriale. Primo titolare di una cattedra del genere è il medico Jacob Bigelow.
Dai pensatori che faticano ai lavoratori che pensano
Nel 1816 gli ingegneri non superano i due per Stato. “The Inventor” lamenta che i colleges sfornano «pensatori che faticano», mentre l’industria ha bisogno di «lavoratori che pensino»: i tecnici. Ci si orienta verso i politecnici e anche l’Accademia militare di West Point incomincia a laureare ingegneri civili. Abbat Lawrence, padrone delle ferriere nella New England, stanzia cinquantamila dollari per una Lawrence Scientific School ad Harvard. L’Università tergiversa: nel 1854 non ha ancora laureato un solo ingegnere. A tutto il 1892 gli ingegneri di Harvard saranno appena 155; mentre l’Università di Yale dimostra più interesse, istituendo dal 1846 corsi supplementari di chimica agricola e altre materie pratiche, nonché il primo dottorato in chimica e il primo d’ingegneria meccanica degli Stati Uniti.
La riluttanza di Harvard per la tecnologia stimola la nascita del Massachusetts Institute of Technology (MIT). Il qualificativo “technology” è di Jacob Bigelow; il motto adottato, “mens et manus”, piega l’umanesimo del latino alle ragioni dell’industria. Dal 1870 alla Prima guerra mondiale i laureati in ingegneria passano da 100 a 4.300.
Lo stato di inferiorità riservato ai tecnici dal mondo accademico viene superato grazie al legame che si stabilisce tra le scuole e le industrie nate dalla ricerca e dalle tecniche scientifiche, con lo sviluppo dell’elettricità e della chimica. Si stabilisce una vera osmosi tra docenza universitaria e management industriale.
Dal monastero della scienza al mondo degli affari
L’ingegnere viene ora definito l’anello di congiunzione tra «il monastero della scienza e il mondo degli affari» (cfr. David Noble, “Progettare l’America”, Einaudi, 1987). Gli ingegneri sono i portatori dello spirito del capitalismo sul terreno strettamente tecnico, come progettisti di macchine e sistemi capaci di minimizzare i costi e di liberare le potenzialità dei materiali e dell’energia. L’equivoco in cui è incorso Thorstein Veblen (a parte la grossolanità di J. Burnham con “La rivoluzione dei tecnici”) nel vedere un conflitto inconciliabile tra tecnici e capitalisti, trova la sua spiegazione nella vicenda di Frederick Taylor (cfr. Daniel Nelson, “Taylor e la rivoluzione manageriale”, Einaudi, 1988).
Taylorismo
Nella memoria storica del mondo del lavoro il taylorismo è sinonimo di taglio dei tempi di lavoro. Il biografo conferma che, con il suo “cottimo differenziale” costituito da una tariffa premio elevata per gli operai che realizzano il tempo assegnato e da una tariffa di penalizzazione bassa per coloro che lo superano (magari in quanto più lenti costituzionalmente), Taylor «mai si convinse completamente della possibilità che l’uomo fosse più complicato di una macchina». Il suo “macchinismo” esprime un aspetto limitato dello spirito capitalistico che anima i tecnici, e una condizione che soltanto episodicamente è suscettibile di porli in contrasto con il mondo degli affari.
Nato nel 1856 da una ricca famiglia dell’aristocrazia quacchera di Philadelphia, diversamente dal padre, “pensionato dalla nascita”, Taylor già nel 1874 entra in fabbrica come apprendista di macchina. Nel 1878 inizia la carriera tecnica alla Midvale Steel Company, nel periodo in cui Philadelphia ha il primato nella produzione di macchine e rappresenta la principale metropoli industriale americana. Grazie all’influenza del cognato Clarence Clark, dell’omonima banca d’investimento, che con William Sellers, costruttore di utensili e creatore degli standard americani di filettature, controlla l’impresa siderurgica, Taylor è assunto nella dirigenza aziendale, dove è pure Joseph Wharton, precursore dell’industria del nichelio, futuro finanziere e padrone della Bethlehem Steel. Inizia il sodalizio con Henry Towne, iniziatore dello scientific management, con uno scritto del 1886, “L’ingegnere come economista”, e con una serie di personaggi, protagonisti della rivoluzione manageriale.
Dopo la laurea in ingegneria meccanica allo Stevens Institute of Technology di Hoboken (New Jersey) nel 1883, Taylor è socio dell’American Society of Mechanical Engineers (ASME), della quale sarà presidente nel 1905, e sviluppa la sua passione inventiva per il macchinario e il taglio dei metalli, assistito dal collega dello Stevens, Henry Gantt, suo discepolo. In questa attività Taylor impersona il “mens et manus” del MIT. Descriverà il suo impegno in officina come un’esperienza “piacevole”: «mi misi dietro una macchina e la feci funzionare per tutto l’inverno e lavorai lo stesso numero di ore degli altri operai…».
Le conseguenze per gli operai non saranno altrettanto piacevoli. Ha lavorato al tornio per studiare le velocità di taglio e provare gli utensili in acciaio autotemprante, o con leghe al tungsteno e manganese. Con l’aiuto di Maunsel White, esperto in metallurgia alla Bethlehem Steel, ha inventato l’acciaio rapido (il brevetto, entro il 1901, gli frutterà 40.000 dollari). Ma lo scopo principale dell’impegno riguarda l’espropriazione delle conoscenze tecniche nascoste degli operai, togliere discrezionalità al loro lavoro e frantumare il processo lavorativo in centinaia di operazioni distinte. Traguardo che riserva la “mens” ai tecnici e la “manus” agli operai.
Se si scontra con i datori di lavoro, è per l’applicazione “dura” delle tariffe di cottimo e per il licenziamento dei macchinisti che non realizzano la “tariffa inferiore”. Ciò che anche H. Gantt vorrebbe evitare per non provocare scioperi e tensioni. Vediamo piuttosto la discordanza tra la rigidezza dello scientific management e le ragioni dell’investimento e del mercato, alle quali Taylor è estraneo malgrado non disdegni di diventare azionista delle imprese cui presta la sua consulenza.
Alla Simonds Company, produttrice di cuscinetti a sfere, introduce la “giornata lavorativa perfezionata”, che adegua l’orario all’efficienza, stimolando le ambizioni degli addetti al controllo con maggiore accuratezza verso le quantità e le qualità prodotte. Taylor è aiutato da Stanford Thompson, ideatore del “crono-libro” per nascondere la messa in funzione del cronometro durante la rilevazione dei tempi. Dopo aver separato le operaie perché non chiacchierino, la giornata si riduce in cambio dell’assiduità lavorativa, e scende dalle 10 ore e mezza iniziali fino a 8 e mezza quando la produzione è aumentata del 33%. Non di meno il padrone decide di abbandonare quella produzione appena i prezzi dei cuscinetti crollano in seguito alla crisi delle biciclette. Determinante, nello spirito del capitalismo, è la prospettiva di affari.
Primato finanziario
Alla Bethlehem Steel, il sovrintendente all’impianto, John Fritz, dice che è più conveniente «vendere una quantità ridotta di lamiere corazzate per centinaia di dollari la tonnellata, invece di grandi quantità, sotto forma di rotaie, per dieci dollari la tonnellata». All’inizio degli anni ’90 la Bethlehem passa infatti dalle ferrovie al “navalismo” come fornitrice della Marina in accordo con il gruppo di Andrew Carnegie. Scoppia uno scandalo che coinvolge i due gruppi: la Bethlehem ha venduto corazze alla Marina russa per 250 dollari la tonnellata mentre le vendeva alla Marina USA per 600 dollari. La cuccagna finisce con il taglio d’imperio del prezzo a 300-400 dollari pena l’istituzione di impianti governativi. Nel 1898 entra in scena Taylor per conseguire la riduzione dei costi: «prima che il cottimo possa essere introdotto con successo» alla Bethlehem, dice, è necessario «sottrarre interamente al controllo degli operai molti dettagli legati al funzionamento dei macchinari».
L’operazione trasforma il reparto macchine nell’officina più moderna del mondo, e il “modello Bethlehem” diventa il prototipo per le altre imprese. Tuttavia, conclude Nelson: «Nel 1901 i nuovi equilibri raggiunti a Washington e continui conflitti all’interno dell’impianto erano, per il presidente della Bethlehem, più importanti delle statistiche sul costo del lavoro prodotte da Taylor in quantità sempre più prodigiose». Il primato spetta alla speculazione. Lo sanno bene anche gli “ingeneri moderni”: dominante è l’aspetto finanziario dell’ingegneria.
IG Metall e FIOM
LA SINDACALIZZAZIONE DEI TECNICI IN FORMAZIONE
La ristrutturazione Europea e i processi di aggregazione che avvengono anche tra gruppi di paesi diversi rendono il sindacato europeo sempre di più una necessità pratica. La FIOM di Genova prosegue negli incontri con la IG METALL per provare a lavorare concretamente in questa direzione. Un processo difficile e complicato, ma senza alternative. A febbraio la responsabile per il lavoro di IG METALL tra gli studenti universitari è intervenuta in un convegno a Palazzo Fieschi, per spiegare come il sindacato tedesco lavori per iniziare già dai “banchi di scuola” il suo proselitismo. Un’esperienza interessante che vogliamo approfondire e eventualmente riprodurre anche come coordinamento in alcune Università italiane. Significa per noi lavorare “in anticipo” sui nostri futuri colleghi. Riportiamo alcuni interventi del convegno.
Prima di dare la parola alla responsabile IG METALL c’è stato un intervento di un delegato di ANSALDO ENERGIA, membro del nostro coordinamento, che ha portato l’attenzione su alcuni aspetti.
È stato sottolineato come, negli ultimi decenni, si sia invertita la composizione delle qualifiche in fabbrica: da 2 operai per ogni impiegato il rapporto si è completamente ribaltato con 2 impiegati per ogni operaio, ma incertezza e necessità di coalizione sono elementi comuni sia tra operai che tra impiegati
Il coordinamento Ing-tec permette di andare oltre la FIOM, e di lavorare per collegare anche quelle figure che lavorano al nostro fianco pur non essendo inquadrati come metalmeccanici, come ad esempio consulenti, interinali, altri contratti, ecc…
Ha poi portato un saluto un giovane studente della facoltà di ingegneria, richiamando l’attenzione sugli studenti immigrati: già uno su dieci, nelle scuole superiori, non è di provenienza italiana. Ha promosso la manifestazione antirazzista della città con la parola d’ordine: “Non toccate gli stranieri! Giù le mani dai ragazzi immigrati. Non toccate i nostri amici!” e ha invitato alla partecipazione al corteo per l’indomani. Ha ricordato come anche il sindacato tedesco, la DGB, negli anni Ottanta lanciava il motto: “non toccare il mio compagno di lavoro”, (Mach meinen Kumpel nicht an) riferendosi ai colleghi di provenienza turca.
Per l’IG METALL è poi intervenuta ISABELLA ALBERT. La considerazione di partenza è stata che la struttura occupazionale è fortemente cambiata in Germania, in particolare negli ultimi anni.
Oggi ci sono molti più laureati occupati anche in mansioni che prima erano svolte senza avere una laurea. Il lavoro di IG METALL si concentra con più attenzione verso ingegneria, informatica, economia, quindi in prevalenza verso gli istituti a indirizzo tecnico. Inizialmente, il punto di contatto era rappresentato dagli studenti che lavoravano per pagarsi gli studi o con gli studenti che svolgevano stage presso le aziende. IG METALL ha iniziato nel 2012 un piano di lavoro specifico diretto agli studenti investendo direttamente delle figure che sono dedicate a questo.
L’attività si svolge con presenza all’inizio dell’anno accademico: vengono allestiti banchetti di accoglienza, incontri di orientamento con una forte presenza in particolare nella prime settimane di lezione. Vengono tenuti dei seminari e si accompagnano gli studenti a visitare l’interno delle fabbriche. Ci sono inoltre degli uffici vicino ai vari gruppi giovanili nelle Università e si aiutano gli studenti sui temi legati al diritto del lavoro. Un altro momento di forte presenza nelle Università è l’assegnazione delle lauree in cui vengono allestiti degli stand per contattare i neolaureati.
Già dalla prima esperienza con Stage di fabbrica, si introducono i rudimenti per il diritto del lavoro e per le pratiche salariali. Per tenere vivo il contatto si propongono ai giovani vari tipi di collaborazione. Il rapporto avviene quindi in tre ambiti: al campus, in fabbrica e direttamente nelle sedi del sindacato.
Oggi 50 delle 155 filiali territoriali hanno un lavoro impostato in questo modo, 41 Università hanno un lavoro avviato. Cominciano a ragionare su dei tassi di tenuta, cioè su quanti, una volta terminata l’Università, mantengono l’iscrizione al sindacato in fabbrica.
Un delegato RSU del gruppo LEONARDO ha concluso i lavori, sottolineando il fatto che i giovani spesso entrano nelle fabbriche e negli stabilimenti senza alcuna conoscenza delle lotte e delle contraddizioni che hanno segnato e segnano il mondo del lavoro.
Un lavoro con stratificazioni tecnico-impiegatizie ad alta qualificazione che caratterizzano e caratterizzeranno sempre più il mercato della forza lavoro europea. Questi sono strati salariati che, storicamente, sono meno abituati alla sindacalizzazione e alla lotta.
Ad una contesa che vede un riarmo militare a tutte le latitudini, si affianca un vero e proprio “riarmo industriale” che investe il campo tecnico e tecnologico.
Un esempio su tutti è la strategia “Made in China 2025”, figlia della volontà della Cina di rompere il monopolio occidentale nel campo dell’alta tecnologia. La ristrutturazione, però, se in alcuni settori significa concentrazioni e lotte di difesa, in altri può presentare un forte sviluppo.
In questa fase si stanno aprendo infatti nuovi cicli di investimenti nel settore dell’Energia, dell’Auto Elettrica e dei Data 4.0 le cui ripercussioni sul mercato della forza lavoro sono ancora tutte da vedere.
Sicuramente aumenterà la richiesta di forza lavoro altamente qualificata che, facendo il pari con la carenza di tecnici, potrà aumentare il potere contrattuale dei lavoratori in Europa. Potere contrattuale che potrebbe essere colto in maniera compiuta solo da un saldo sindacato europeo. Un sindacato che abbia chiara la propria appartenenza alla classe di tutti i produttori salariati. Un sindacato che sappia coniugare al suo interno lo spirito del produttore e l’orgoglio della lotta.
L’IMPATTO DELL’AUTO ELETTRICA
Uno sguardo complessivo
La prospettata rivoluzione dell’auto elettrica ha un costo di cui raramente si discute. Le auto con motore endotermico, quelle attualmente circolanti, provvedono da sé stesse a trasformare l’energia chimica contenuta nel combustibile in energia meccanica che le consente di muoversi. Nell’auto elettrica, l’energia accumulata nelle batterie si trasforma in energia meccanica nel motore elettrico. Ma l’energia accumulata nelle batterie deve essere in qualche modo prodotta da qualche altra parte per poter poi essere accumulata nelle batterie delle auto.
Questa produzione avviene nelle centrali elettriche a carbone, a gas, idroelettriche, nucleari e rinnovabili. L’energia prodotta dalle centrali elettriche viene immessa nella rete di distribuzione a cui le auto elettriche si connettono per ricaricare le batterie.
È chiaro quindi che un aumento massiccio del numero di auto elettriche circolanti avrà un impatto sul consumo di energia elettrica complessivo. È proprio di questo impatto che poco viene detto.
Uno studio illustrato sul numero di gennaio della rivista Power Engineering International (PEI) esamina la prospettiva di un parco veicoli elettrici circolante in Europa pari alla metà di quello circolante attualmente. Quest’ultimo valore si ricava dal rapporto ACEA 2017 (European Automobile Manufacturers Association). Secondo questo, i veicoli circolanti nella UE a 28 sono pari a 252 milioni di veicoli privati, 31 milioni di veicoli commerciali leggeri, 6,2 milioni di veicoli medi e pesanti e 0,7 milioni di autobus.
Secondo lo studio di PEI, l’aumento dei consumi elettrici nella UE a 28 dovuto a questa trasformazione è pari a 330 TWh/anno che è pari all’intero consumo elettrico di un paese come l’Italia nel 2016. Tale dato di consumi equivale a una potenza erogata e consumata costante di 45 GW. Questo è però un dato grezzo che deve essere raffinato. Esso si basa sull’assunzione che consumo e produzione siano costanti. In realtà, il consumo, cioè la ricarica dei veicoli elettrici avrà una distribuzione legata a vari aspetti, non ultimo, le tecnologie di ricarica disponibili. In particolare, si fa distinzione tra ricarica veloce e ricarica lenta. La prima è quella che permette di ricaricare le batterie in 20-30 minuti e che sarà la forma di ricarica tipica delle autostrade e strade extraurbane, mentre la ricarica lenta è quella che consente una ricarica in circa 7-8 ore e che sarà usata soprattutto nei box privati e nelle piazzole di parcheggio dei posti di lavoro.
Estrapolando i dati del “Road Traffic Estimates: Great Britain 2016” e incrociandoli col rapporto ACEA 2017 si ricava che la potenza necessaria nella UE a 28 per ricaricare con ricarica lenta tutti i veicoli, nell’ipotesi di metà parco circolante elettrico, è pari a circa 200 GW.
In realtà è chiaro che il processo di ricarica non avverrà contemporaneamente e che, parte importante delle ricariche, si effettuerà la notte, quando i consumi elettrici sono più bassi.
L’incremento reale futuro della potenza installata sarà dunque funzione di molte variabili: dalle abitudini individuali alla frequenza di ricarica alle politiche tariffarie che dovranno incentivare le ricariche notturne.
In ogni modo, secondo alcune stime, il dato reale di potenza in più da installare, cioè di centrali da costruire per rendere possibile la diffusione dell’auto elettrica in Europa per una quota pari alla metà dell’attuale parco circolante si colloca tra il 25% e il 50% dei 200 GW di sopra.
È un dato rilevante. Se si fa riferimento alla parte bassa della forchetta, equivarrebbe a 17 centrali nucleari come quella di Flamanville in Francia o, se si vuole, a 52 centrali nucleari come quella di Caorso, A esso si aggiunge la necessità della realizzazione di infrastrutture di ricarica e il potenziamento delle reti di distribuzione, compresa l’aumento dell’intelligenza delle reti stesse.
Secondo il Report “Low-carbon Cars in Europe” elaborato da Cambridge Econometrics entro il 2030 metà dei veicoli venduti in Europa sarà elettrico (inclusi veicoli ibridi e fuel cell). Ciò comporterà almeno 7100 punti di ricarica veloci nelle autostrade e strade extraurbane. Si parla di investimenti pari a 23 miliardi di Euro solo per questo aspetto.
Le ecologiche auto elettriche imporranno nel prossimo futuro la costruzione di decine di centrali elettriche e di migliaia di km di linee ad alta tensione.