L’ultimo rapporto del FMI prevede per il 2017 una crescita del PIL italiano al +0,7% ovvero un quinto del ritmo mondiale, e la metà di quello dell’area Euro. Non si tratta di una contingenza ma di un trend in atto da anni.
Allarghiamo lo zoom. Con il 2017 entriamo nel decimo anno dalla grande crisi 2007/2008, è possibile fare un bilancio. Nella fig. 1 riportiamo le sequenze storiche della variazione di PIL annuo nelle elaborazioni del FMI.
Emerge la diversa velocità di ripresa tra paesi, l’Europa e in particolar modo l’Italia mostrano un affanno rispetto agli altri competitori internazionali.
SOMMARIO
Titolo | pag. |
Il decennio post crisi | 1-2 |
La produzione di energia elettrica | 3-4 |
L’ingegnere nella storia (parte III) | 5-6 |
Ingegnere europeo e ingegnere cinese | 7 |
Invito all’incontro | 8 |
Diverse velocità nel decennio post crisi
Sull’Italia pesano una serie di nodi economici e politici insoluti da decenni, in particolare, però, è la conformazione industriale caratterizzata da una grande quantità di piccole e medie aziende, ad essere il vero fattore di freno.
La produttività non recupera, infatti secondo le stime dell’OCDE e dell’EUROSTAT ponendo 100 l’indice del 2008, nel 2017 l’Italia è ancora ferma a 100 mentre USA cresce a 108, Giappone e Francia a 106 e Germania a 105. Il problema centrale è il calo degli investimenti che si protrae negli anni. (Sole 24 Ore 13/01/17)
Dopo 8 anni di segno negativo gli ultimi due anni +1,2% nel 2015 e +1,8% nel 2016 NON colmano la voragine apertasi nell’industria italiana. (Fig. 2).
Secondo UCIMU (Associazione macchine utensili) gli investimenti per il 2017 vanno rivisti al rialzo: si ipotizza un +9% per le consegne dei costruttori sul mercato interno alla luce degli incentivi del governo previsti nel piano Industry 4.0 con l’iperammortamento del software per far decollare l’automazione “intelligente”. Vedremo se è una realtà o un wishful thinking, certo è che l’era digitale, gli oggetti connessi e i dati diventano materiale di business.
Ovviamente sarà da valutare quanto le PMI italiane saranno effettivamente in grado di investire in automazione.
Il nodo delle competenze nelle fasi di rapido mutamento
Una riflessione va fatta a proposito delle skills. Sulla situazione attuale dell’industria italiana e sulle sue prospettive a “tinte 4.0” si sono concentrati gli esperti dell’Osservatorio IoT del Politecnico di Milano. “La partita non riguarda solo la manifattura, ma è in gioco l’ecosistema innovativo italiano. C’è molto da fare, visto che due imprese su tre sottovalutano il digital skill gap, che esiste e va affrontato. Serve uno scatto anche perché il 40% dei top manager non conosce il paradigma dell’industria 4.0. La consapevolezza è strategica: fare industria 4.0 vuol dire sì utilizzare il digitale ma anche saper leggere i nuovi business”.
“Le skills sono un asset importantissimo perché oggi osserviamo un alto tasso di disoccupazione giovanile e molte imprese che cercano competenze non le trovano. Un doppio dramma che ci obbliga a formare competenze, ma anche formatori e sistemi di comunicazione in grado di orientare i giovani fin da subito”. (CorCom 25/01/17)
Stessa considerazione anche di Unioncamere. Nei primi tre mesi del 2017 quasi una assunzione programmata su cinque in Italia è considerata di difficile reperimento.
Sono problemi aperti e mostrano la contraddittorietà del fenomeno. Disoccupazione giovanile al 40,1% (ISTAT dicembre 2016) che coesiste con difficoltà a trovare candidati con le competenze richieste. Formazione scolastica che non riesce a tenere il passo con i veloci cambiamenti. Una politica verso i flussi migratori che continua ad essere strumentalizzata per ragioni elettorali e in maniera miope non affronta i “buchi demografici” prodotti dal calo delle nascite e i problemi connessi con l’invecchiamento della popolazione.
L’ostacolo della piccola dimensione
Nel decennio il tessuto delle imprese ha perso il 20-25% del potenziale manifatturiero. “Sulle nuove mappe del capitalismo mondiale, la selezione procede inesorabile, alcuni vanno veloci ed aggressivi, molti sono scomparsi e il lento e acciaccato calabrone italiano, che in altre epoche ha dimostrato di saper volare nonostante le leggi della fisica, deve adesso confrontarsi con la nuova natura delle cose”. (Sole 24 Ore 18/01/17)
Il paradosso del calabrone si spiega, in realtà, considerando proprio la diversità dell’epoca che stiamo vivendo rispetto alla fase precedente. Sono anni di enormi cambiamenti economici, sociali e politici. La concorrenza si è accentuata, prosegue un processo di concentrazione in tutti i settori. La possibilità di spesa pubblica si è ridotta e, per le aziende italiane, oramai da anni la scorciatoia della svalutazione della moneta è preclusa dall’euro. I nodi (per il “calabrone”) sono venuti al pettine.
Approfondiamo la struttura delle imprese in Italia.
Secondo l’analisi di Mediobanca i medi gruppi (50-499 addetti) hanno subito un bel colpo: nel 2008 erano 4.000 con 593 mila addetti mentre nel 2014 sono scesi a 3.283 (-18%) con gli addetti che si collocano a 475 mila.
Disastrosa la parabola calante per i grandi gruppi. Secondo l’analisi dell’ufficio studi CONFINDUSTRIA nel 1991 le imprese con oltre 1.000 addetti erano 241 con 780 mila effettivi mentre 20 anni dopo sono scese a 176 e con 430 mila dipendenti.
Campioni europei per le sfide mondiali
Fusioni e acquisizioni anche cross border caratterizzano la ristrutturazione attuale mostrando la tendenza del processo complessivo, ovvero la creazione di grandi gruppi europei. Campioni europei ma in una partita che è mondiale.
È significativo, ad esempio, che la supercommessa per la futura rete unica tra WIND e H3G, che supporterà i servizi della società prodotta dalla fusione tra i due operatori, è il gruppo cinese ZTE, fornitore di apparati di telecomunicazione e concorrente della connazionale Huawei.
Il declino dell’Occidente?
Alle incertezze economiche si sommano grandi incognite politiche. Quale effetto avranno le scelte protezioniste di Trump, in che modo la Cina punterà ad essere il nuovo alfiere della globalizzazione e come l’Europa affronterà il problema inglese e la prossima tornata di elezioni nei grandi paesi (Francia, Germania e poi Italia) è impossibile prevedere.
Scienza e ricerca hanno però una direzione chiara. L’ultimo Outlook 2016 su scienza, tecnologia e innovazione dell’OCSE, registra, per la prima volta da quando raccoglie queste statistiche (cioè dal 1981), che la spesa pubblica in Ricerca e Sviluppo è diminuita nei Paesi Ocse. Tra il 2000 e il 2015 gli investimenti in R&D effettuati dagli Stati e da istituzioni universitarie sono calati dall’1,86 all’1,76% della spesa pubblica nell’intera area Ocse. Per esempio in USA gli investimenti calano dal 2,41% al 2,17%, in Gran Bretagna dal 1,82% al 1,37%, in Francia dal 1,82% al 1,14% e pur partendo da livelli bassi anche in Italia è calato dal 1,36% all’1,02%.
I Paesi non Ocse, al contrario, stanno recuperando terreno e ormai effettuano più del 30% della ricerca pubblica globale.
“È chiaro che una serie di paesi che si erano addormentati si sono ormai svegliati. Cina in testa, che più di 1000 anni fa era una potenza anche grazie a invenzioni come la carta, la polvere da sparo, la bussola. Per quanto riguarda la spesa in R&D, Pechino ha superato il Giappone nel 2009, l’Europa nel 2013 e sorpasserà gli Stati Uniti nel 2020. Il potere sta nella canna del microscopio”. (Corriere della Sera 10/12/16)
Tendenze future e trasformazioni
La rapidità delle innovazioni tecnologiche è notevole e aggiunge incertezza sull’evoluzione futura di tutti i settori non solo quelli high tech. Alcuni esempi.
Dieci anni fa l’iPHONE entrava in commercio, oggi la metà delle persone si porta un computer in tasca. Nel 2009 meno dell’1% del traffico virtuale passava per tablet e smartphone nel 2016 sfiora il 40%.
All’interno di una tra le più grandi banche d’affari del mondo, la Goldman Sachs, sono già oggi impiegati 11.000 ingegneri, quasi 1/3 del suo organico.
La società di consulenza Roland Berger ha pubblicato uno studio dal titolo “Robot e uomini nella logistica”. Secondo tale studio la questione non è se, ma con che velocità arriveranno i robot nella logistica. Il precursore è stato Amazon. Nel 2012 ha acquistato per 775 milioni di dollari l’impresa americana Kiva, costruttrice di robot. Attualmente c’è un esercito di 30.000 robot nei magazzini di America, Inghilterra e Polonia.
O ancora, per citare un altro tra i tanti esempi oggi disponibili, la CNH INDUSTRIAL punta sull’agricoltura di precisione, un trattore a guida autonoma che può lavorare 24 ore al giorno grazie a tecnologia GPS.
Conquistare il futuro
Schwab Klaus fondatore del World Economic Forum di DAVOS, in una recente intervista si è espresso sui vantaggi immensi e sui rischi della rivoluzione tecnologica. La stima è che il 40% dei posti di lavoro attuali verrà eliminato. Secondo Klaus: “La quarta rivoluzione industriale colpisce soprattutto le sicurezze della classe media”.
Ogni previsione più o meno catastrofica è da prendere con cautela proprio perché sono effettivamente molto numerose le variabili in gioco.
Che l’incertezza aumenti e che prosegua una grande ristrutturazione sono però dati di fatto.
Se manca la coalizione il rischio è che siano sempre i lavoratori a pagare.
Una maggiore consapevolezza può essere la molla per intervenire attivamente in questi cambiamenti e non subirli solamente.
Resta una osservazione di fondo su cui riflettere, ovvero il paradosso di una organizzazione sociale che percepisce come un problema lo sviluppo di immense forze produttive che potrebbero permettere agli uomini una nuova e migliore possibilità di esistenza.
SATELLITE GALILEO
Concorrenza nello spazio
Eurocommesse nello spazio per THALES ALENIA SPACE e TELESPAZIO (le due aziende frutto delle joint venture Leonardo-Finmeccanica e la francese Thales). L’ESA (l’ente Spaziale Europeo) ha siglato un contratto da 10 anni con valore fino a 1,5 MLD€ di Operatore del servizio Galileo a SPACEOPAL (joint venture tra TELESPAZIO e Dlr–Gfr dell’agenzia spaziale tedesca).
Dal 15 dicembre GALILEO noto come EU Global Navigation Satellite System GNSS comincia ufficialmente a offrire i primi servizi. Per il dispiegamento complessivo dei SATELLITI occorre attendere il 2020 (al momento ci sono 18 satelliti lanciati nel corso degli ultimi 5 anni, ne mancano 6) e solo a sistema completato i 5 servizi del satellite (il servizio aperto, il servizio pubblico regolamentato, il servizio di ricerca e salvataggio, il servizio commerciale e il contributo ai servizi di monitoraggio dell’integrità) saranno attivi.
Secondo il vicepresidente della commissione UE e commissario europeo all’energia Sefcovic, Galileo una volta completato sarà 10 volte più preciso rispetto ai sistemi esistenti di geolocalizzazione e sposterà il livello di precisione da 10 a 1 metro. A Galileo si chiede di spingere industry 4.0 e i prossimi 3 anni saranno decisivi per sperimentare il servizio in attesa del 2020. (Sole 24 Ore 16/12/17)
Capitali, cervelli e produzione per uno sviluppo scientifico potenzialmente notevole. Solo l’utilizzo anche militare dei satelliti, però, spiega come mai devono esistere in concorrenza il GNSS europeo, il GPS americano, il GLONASS russo e il BEIDU cinese.
SEMICONDUTTORI
La CINA punta a diventare leader
Forse una risposta alla postura protezionista del nuovo presidente americano Trump può essere della Cina che con TSINGHUA UNIGROUP decide di investire 30 MLD $ per una gigantesca fabbrica a NANCHINO che produrrà ogni mese 100 mila chip. (Reuters 19/01/17)
Il solo settore delle telecomunicazioni in CINA (Xiaomi, Lenovo, Huawei, ZTE, ecc) assorbe il 50% della produzione mondiale di chip, dominata ora da USA con i gruppi INTEL e QUALCOMM.
I finanziamenti pubblici di TSINGHUA illustrano la determinazione della CINA per colmare ritardi e diventare leader dei semiconduttori nel 2030 secondo la strategia lanciata nel 2014 e arrivare nel 2025 a soddisfare il 70% di domanda interna contro il 10% attuale, moltiplicando gli investimenti per 40. È prevedibile, anche in questo settore, un livello di scontro tra gruppi che si alzerà di un gradino.
LA PRODUZIONE DI ENERGIA ELETTRICA
Un ciclo di investimenti gigantesco con molte incognite
La filiera dell’energia, dall’approvvigionamento delle fonti alla costruzione e mantenimento delle centrali, alla trasmissione di energia, oltre a essere un settore decisivo per l’economia mondiale ha riflessi anche politici in quanto l’energia è contemporaneamente combustibile per il mercato mondiale, ma anche merce essa stessa.
L’attenzione spesso è puntata sul solo settore petrolifero, ma in realtà le lotte nel settore energetico avvengono a tutto campo e si svolgono nel settore della ricerca e dell’ingegneria, nel campo degli accordi interstatali per la creazione di reti elettriche interconnesse, nelle scelte strategiche che avvantaggiano ora l’una ora l’altra fonte di approvvigionamento.
Uno dei settori chiave è quello della generazione e trasmissione di energia elettrica. Di conseguenza, le società che costruiscono le centrali elettriche, le centrali nucleari, le linee ad alta tensione hanno un peso rilevante dal punto di vista economico.
Si tratta di giganteschi conglomerati industriali con centinaia di migliaia di dipendenti, con sedi in tutto il mondo, che sviluppano tecnologie sofisticatissime e che spesso hanno una funzione strategica per i propri Stati tanto da avere un rapporto privilegiato con gli apparati di governo.
Poiché si tratta di prodotti non offerti al mercato del consumo, i nomi delle aziende che operano in questo settore non sono presenti nell’immaginario collettivo come, ad esempio, quelli delle industrie automobilistiche, ma il tipo di organizzazione che un’azienda deve mettere in campo per costruire macchine sofisticatissime come le turbine a gas o gestire una commessa per la costruzione di una centrale elettrica impongono un altissimo livello di organizzazione a base manageriale.
Giganti mondiali
Alcune di queste aziende sono tra le più grandi del mondo. Secondo la rivista Fortune che pubblica annualmente la classifica delle prime 500 compagnie del mondo in ordine di fatturato, nel 2016 la General Electric (GE) è stata la ventiseiesima azienda più grande con un fatturato di 140 milioni di dollari e 333.000 dipendenti. Secondo la stessa rivista Siemens si piazza al 71° posto con 87 milioni di dollari di fatturato e 348.000 dipendenti. Oppure ancora la giapponese Hitachi che, con 83 miliardi di dollari di fatturato e 335.000 dipendenti si piazza al 79° posto.
Per inquadrare l’ambito nel quale si muovono queste grandi compagnie prendiamo in considerazione alcuni macro dati.
I sorpassi della Cina
Nel 2009 la Cina con 874 GW di potenza elettrica installata ha superato la UE-27 (841 GW). La crescita media annua cinese di 85 GW corrisponde all’aggiunta dell’intero parco installato di un paese come la Gran Bretagna (88 GW). Da allora, la Cina ha continuato a crescere. Nel 2011 è avvenuto anche il sorpasso sugli Stati Uniti. Ciò fa della Cina la nazione con la maggiore capacità di produzione di energia elettrica del mondo.
Complessivamente la capacità elettrica installata nel mondo era di circa 5.900 GW nel 2012. Per il 2030 si prevede una capacità installata mondiale di 8.800 GW (dato US EIA). Abbiamo dunque un incremento di 2.900 GW fino al 2030. Questo valore rappresenta solo l’incremento del parco elettrico installato, ma non rappresenta la quantità di GW nuovi da realizzare. Infatti, alle nuove centrali dobbiamo aggiungere il rinnovamento delle centrali obsolete. Considerando che le centrali hanno una vita media di 30–40 anni, si può giungere alla conclusione che, a partire dal 2012, entro il 2030 almeno un quarto delle centrali attualmente in funzione avrà bisogno di essere rimpiazzato o pesantemente rinnovato.
Considerando quanto sopra abbiamo dunque che ai 2.900 GW di centrali nuove si dovranno aggiungere altri 1.500 GW frutto di sostituzione di impianti esistenti (quindi centrali nuove) o di rinnovamento di centrali esistenti.
Si parla dunque di 4.400 GW di centrali da costruire fino al 2030. Praticamente si tratta di un valore pari al 75% dell’intero parco centrali attualmente in funzione.
Si tratta di un ciclo di investimenti colossale che l’Agenzia Internazionale dell’Energia stimava in 5.900 miliardi di dollari dal 2012 al 2030.
La spinta alla concentrazione
Si tratta di una cifra gigantesca e, ovviamente, la battaglia tra i grandi gruppi per accaparrarsi le enormi commesse legate a questo ciclo di sviluppo energetico è in atto.
Chi sono i grandi gruppi che si scontrano sul mercato mondiale delle costruzioni elettriche?
La crisi economica degli anni ‘70, con i suoi riflessi di crisi energetica, ha selezionato un manipolo di gigantesche società a base scientifica e manageriale concentrate nei paesi sviluppati: la tedesca Siemens, la svizzera ABB, le francesi Alstom (ora in orbita General Electric) e Areva, l’americana General Electric, le giapponesi Mitsubishi, Toshiba e Hitachi. La crisi attuale iniziata nel 2008 sta avendo un doppio effetto: una ulteriore concentrazione dei gruppi in occidente e l’emergere di nuovi gruppi asiatici: in Cina Shangai Electric Group, Harbin Power Equipment Company e Dongfang Electric Group; in Corea Doosan; in India Bharat.
La corsa tecnologica per migliorare i rendimenti
La fetta più grande degli investimenti riguarda e riguarderà l’Asia ascendente in cui è in corso un ciclo di investimenti nelle centrali elettriche di ogni tipo, a carbone, a gas, idroelettriche e nucleari per costruire un capitale di prima elettrificazione.
Diversa è la situazione nei paesi OCDE. Qui siamo alla fine di un ciclo elettrico iniziato 40-50 anni fa. In questo caso il ciclo dei prossimi quindici anni riguarderà per buona parte la sostituzione delle vecchie centrali con centrali di nuova generazione ad alto rendimento (centrali a carbone a ciclo ultra super critico, centrali a ciclo combinato, centrali nucleari di III+ generazione) e centrali da fonti totalmente rinnovabili.
I grandi gruppi europei, americani e giapponesi puntano dunque agli appetitosi mercati elettrici asiatici che promettono grandi commesse per lunghi anni.
La lotta per la spartizione del mercato per la costruzione delle grandi centrali elettriche spinge sia le vecchie compagnie delle metropoli avanzate sia le aggressive società delle economie emergenti a una incessante gara per il miglioramento degli apparati e delle tecnologie da rivendere sul mercato. Per ogni tipo di centrale la corsa tecnologica tende a migliorare il rendimento per diminuire gli sprechi e dunque i costi di esercizio della centrale stessa.
La corsa tecnologica riguarda anche la tecnologia più antica, quella del carbone e del vapore che negli ultimi anni ha avuto un impulso notevolissimo. Si è avuto un balzo dell’efficienza energetica delle centrali a carbone dal 25% delle centrali tradizionali al futuro 50% per le nuove centrali ultra supercritiche in progettazione.
Sono le grandi compagnie occidentali all’avanguardia in questo settore. In questi cicli a vapore ultra super critici il vapore viene spinto fino a 600 °C di temperatura e 260 bar di pressione e, rispetto ai cicli a vapore normali, portano il rendimento fino al 45% contro il 33-36% delle centrali a ciclo tradizionale. Si tratta di tecnologie sofisticatissime soprattutto dei materiali, della metallurgia e dei metodi di costruzione.
La corsa ai rendimenti sempre maggiori riguarda anche le centrali nucleari. In attesa della IV generazione di reattori, si continua a produrre reattori della cosiddetta generazione III+. Questi ultimi hanno dei limiti sui rendimenti ottenibili che sono inferiori a quelli delle più moderne centrali a carbone.
Per migliorare di qualche decimo di percentuale il rendimento (che comunque significa risparmi giganteschi sul combustibile nucleare nell’arco dell’intera vita di centrale) si agisce dunque sulle dimensioni dei generatori. In questa corsa al gigantismo sono due gruppi europei i più avanti, la tedesca Siemens e la francese Alstom. La prima fornisce per la centrale nucleare finlandese di Olkiluoto un turbogeneratore da 1600 MW. Alstom realizza per la centrale nucleare di Flamanville un nuovo turbogeneratore da 1750 MW che sarà il più grande del mondo.
Anche nel campo del ciclo combinato, la tecnologia che garantisce il più alto rendimento, le grandi compagnie si scontrano nella rincorsa tecnologica. In questo caso gli obbiettivi sono due: aumento del rendimento e riduzione dei tempi di messa in marcia dell’impianto.
La riduzione dei tempi di messa in marcia
Quest’ultima necessità si sta imponendo sempre più a causa dell’entrata in servizio nelle reti elettriche di centrali “verdi” eoliche o solari che per loro natura hanno un’erogazione discontinua. Ogni tecnologia ha suoi tempi propri di messa in marcia. Per lo stato attuale si ha che le centrali a ciclo combinato (la sezione gas del ciclo combinato) si mettono in marcia entro un’ora e le centrali a carbone e nucleari in 4 – 36 ore. Questi tempi potrebbero essere critici quando verranno interconnesse alle reti elettriche una quantità sempre maggiore di centrali “verdi”. Da qui la rincorsa anche alla velocità. In questo campo i maggiori risultati sono ottenuti dalle centrali a ciclo combinato.
Recentemente General Electric ha annunciato la messa a punto di una nuova centrale capace di passare da zero alla potenza massima in 30 minuti con un dimezzamento dei tempi finora ottenuti. Non solo, lo stesso sistema, denominato Flexefficient 50, garantirebbe un’efficienza energetica del 61% con un balzo di ben 6 punti percentuali rispetto ai cicli combinati attualmente funzionanti. Questo risultato è stato possibile grazie a un investimento in ricerca di 500 milioni di dollari. Cifra che mostra come questo settore non può che essere terreno di competizione di veri e propri giganti.
Gli altri campioni non stanno a guardare in questa continua rincorsa. Addirittura Siemens può affermare di essere arrivata per prima, infatti nel 2012 ha condotto un test su una centrale costruita in Germania per EON. In questo test la centrale ha raggiunto un rendimento del 60.75% e una velocità detta di rampa di 35MW/min che le consente di andare a piena potenza nel giro di soli 30 minuti.
La giapponese Mitsubishi non dichiara un tale traguardo, ma annuncia il record mondiale delle temperature di ingresso dei fumi in turbina 1600 °C con un salto di ben 100 °C rispetto alle turbine a gas attualmente in circolazione.
Il rafforzamento dei gruppi e la coalizione tra i lavoratori
In questa lotta le alleanze si creano e si rompono continuamente. Esse sono spesso frutto di simbiosi temporanee. D’altro canto i giganteschi investimenti ormai necessari in questo campo impongono una massa di capitali tale che solo veri e propri colossi possono sperare di sopravvivere.
Fusioni, acquisizioni, cooperazioni temporanee a progetto sono all’ordine del giorno.
I lavoratori ne saranno certamente coinvolti. Una solida coscienza della necessità di affrontare questi fenomeni economici mondiali coalizzati deve essere la stella polare dell’azione dei lavoratori che operano in queste realtà. Lavoratori altamente specializzati, di elevata scolarizzazione, tecnici e ingegneri. La coalizione e il rafforzamento non deve essere solo la politica dei grandi gruppi, ma soprattutto quella dei lavoratori che creano la ricchezza col loro lavoro e la loro intelligenza.
L’INGEGNERE NELLA STORIA
Parte III: L’inventore
Proseguiamo con gli articoli a carattere storico. L’intento, come abbiamo già esplicitato, è quello di fornire spunti di riflessione a proposito della “figura” e della collocazione sociale degli ingegneri nel corso dei secoli. Tappe utili anche per meglio comprendere la situazione attuale.
È oggi di moda sottolineare continuamente come internet renda più veloce la trasmissione di informazioni aumentando la produzione di nuove idee. Al di là delle esagerazioni di alcuni, ciò è vero, anche se, sostiene l’economista Charles Jones, docente alla Stanford University, l’accelerazione dei processi cognitivi ha radici molto più lontane dell’invenzione del Web, e si inserisce in un processo iniziato ormai da secoli. Per dimostrarlo lo studioso ha compiuto nel 2004 un’analisi che ha posto l’attenzione sulla velocità di produzione di nuove idee nel corso di un periodo di tempo assai esteso, a partire dal 25.000 a.C.
All’epoca, i 3 milioni di esseri umani allora esistenti, avevano bisogno di secoli per produrre una singola idea innovatrice: il tempo per pensare era un lusso che nessuno si poteva concedere. In seguito, nel periodo che andò dal 5.000 a.C. all’1 d.C. le invenzioni furono circa 39 l’anno. L’avvento del capitalismo segna una differenza sostanziale.
Nel 1800, il secolo della Rivoluzione Industriale, si produssero nuove idee al ritmo di 3.840 l’anno. Per passare poi ad un livello nel XX secolo di 110 mila nuove idee ogni anno. È un balzo in avanti prodigioso rispetto al passato.
Non siamo sostanzialmente diversi dai nostri antenati di 25.000 anni fa, né più intelligenti, ma abbiamo raggiunto un grado di controllo della natura che ci permetterebbe (ma non sta avvenendo) di considerare sostanzialmente risolto per tutti gli uomini il problema di vivere agiatamente con un minimo dispendio di energie. Se ne possono indagare i motivi.
Nella opera “Problemi di storia del capitalismo” lo storico ed economista inglese Maurice Dobb conferma la tesi che abbiamo già visto in B. Gille sulle “macchine reinventate”. È opinione di Dobb che sul terreno dell’innovazione tecnologica da un lato sia riscontrabile una continuità storica col passato, dall’altro si abbia un “salto” quando le condizioni sociali determinano l’economicità del macchinismo.
Scrive Dobb: “Sarebbe errato considerare il periodo delle innovazioni tecniche come del tutto isolato dopo secoli di tecnica stazionaria: il Basso Medioevo aveva visto la gualcheria e la ruota ad acqua; il XVI e XVII secolo una fioritura di scoperte che avevano posto le basi tecniche dei primi esempi di industria di fabbrica, come i progressi della pompa pneumatica che favorivano lo scavo di pozzi minerari in profondità, lo studio scientifico del moto pendolare e di quello circolare, che ebbero applicazione pratica nella fabbricazione di orologi. Tuttavia l’epoca delle macchine a vapore sorpassò tutte le precedenti perché l’unione di codeste macchine coi nuovi organismi automatici dischiuse un campo di investimenti intesi a «economizzare lavoro umano» senza paralleli per ricchezza ed estensione”.
L’exploit inglese
È divenuto ormai luogo comune associare la rivoluzione industriale dell’Ottocento ad un paese, l’Inghilterra, e ad uno specifico settore: il tessile cotoniero. Ce n’è ben ragione.
David Landes nel libro di “Prometeo liberato”, fornisce un interessante quadro evolutivo dell’industria cotoniera inglese.
Nel 1760 l’Inghilterra importava 2 milioni e mezzo di libbre di cotone grezzo come materia prima di una lavorazione effettuata a domicilio. Nel 1787 l’import era già salito a 22 milioni di libbre e cominciavano a sorgere le manifatture.
Nel 1837 366 milioni di libbre di cotone erano importate nel regno per rifornire quella che ormai era divenuta la prima industria del paese per capitale investito (macchine), valore del prodotto e numero di addetti.
“Il prezzo del filato – conclude Landes – era sceso a forse un ventesimo di quello di un tempo, e la più economica manodopera indù non poteva più competere per qualità o quantità con i filatoi intermittenti o continui del Lancashire. I filati di cotone inglesi si vendevano in tutto il mondo”.
L’avvento del macchinismo ha dunque avuto i suoi costi, ma cerchiamone i suoi protagonisti primi: gli “ingegneri” della rivoluzione industriale.
Le macchine tessili
Maurice Niveau (“Storia dei fatti economici contemporanei”), concordemente ad altri autori, cita quattro invenzioni che hanno determinato la “rivoluzione tessile” inglese: la spinning-jenny di James Hargreaves, una macchina per filare brevettata nel 1770, la water frame di Richard Arkwright, un filatoio continuo brevettato nel 1769, la mule di Samuel Crompton (1779) ed infine la mule automatica di William Kelly, realizzata nel 1792.
Se a questi aggiungiamo il telaio meccanico di Edmund Cartwright (1785) e la macchina a vapore di James Watt (1769) abbiamo al completo la base tecnica dell’industria tessile.
Ma chi erano questi uomini? Hargreaves faceva di mestiere il falegname, Arkwright il barbiere, Crompton l’agricoltore, Watt l’artigiano nel campo degli strumenti da laboratorio a Glasgow e solo Cartwright aveva studiato ad Oxford… materie letterarie.
È singolare che nessuno degli “ingegneri” inventori avesse una preparazione specialistica.
Per dirla con M. Niveau:
“… essi non vivevano in una torre d’avorio. Essi erano abili artigiani che hanno trovato via via le risposte a problemi concreti: in primo luogo bisognava filare più rapidamente per rispondere alla domanda dei tessitori, in seguito si dovette trovare il modo di tessere più rapidamente per sfruttare l’aumentata capacità di produzione delle filande”.
Ancora:
“Alcuni di loro hanno seguito metodi empirici, altri hanno operato in modo più scientifico. I due metodi non si escludono, si completano”.
Così se nel caso di Arkwright e di Hargreaves acuto spirito di osservazione ed empirismo l’hanno fatta da padroni, J. Watt, pur sfornito di titoli accademici, ebbe la possibilità di lavorare come borsista all’Università di Glasgow e di confrontare le sue conclusioni con quelle del locale corpo accademico.
Diversa fortuna
Una comune motivazione ha animato questi “ingegneri”: la ricerca della personale fortuna. “Non si possono scindere questi eroi dai profitti e dagli appelli della città industriale”, ha scritto lo storico francese F. Perroux.
Ma in questo campo le singole vicende furono alterne: Arkwright creò un proprio impero industriale; Crompton, geniale tecnico, non si rivelò tale nella gestione degli uomini: avviata la propria filanda, soccombette alla concorrenza e fu costretto a spendere un indennizzo di 5.000 sterline concessogli nel 1812 dal Parlamento inglese per rifondere i suoi creditori.
Siamo ancora alla fase dell’ingegnere inventore. Una fase che si chiude verso la fine del XIX secolo con il passaggio (ad esempio anche nel campo dell’industria elettrica) da imprese fondate da inventori imprenditori al capitalismo manageriale in simbiosi con le banche. Il processo industriale passa nelle mani di manager e banchieri, i quali riducono inventori, tecnici, ingegneri e scienziati al ruolo subordinato di dipendenti salariati di grandi organizzazioni industriali-finanziarie. Avremo modo di tornare su questo aspetto.
La macchina utensile
Abbiamo parlato di inventori di macchine, conviene ora soffermarsi sulla natura di queste ultime. In realtà, la vera macchina, la protagonista della “rivoluzione”, è la macchina utensile, cui si aggiungono quasi come appendici la forza motrice ed il meccanismo di trasmissione.
Ecco il segreto della rivoluzione industriale. La macchina utensile moltiplica gli strumenti in moto, vale mille artigiani e come tali li sostituisce. Solo in un secondo momento, divenendo essa stessa un congegno pesante e difficile da muovere, richiede lo sviluppo più raffinato della forza motrice.
È una ventina d’anni dopo essere stata concepita che la macchina a vapore di Watt, intorno al 1790, comincia ad essere sfruttata industrialmente: in questi due decenni sta l’opera di Arkwright e soci, inventori di macchine utensili.
Arcaismo e modernità
Non bisogna comunque ingannarsi sui presunti tempi rapidi di applicazione di codesta tecnologia. M. Niveau scrive che: “Per lungo tempo i metodi arcaici di produzione e quelli nuovi coesistettero, ma l’indigenza dei tessitori a domicilio continuò a crescere. I loro salari erano talmente calati che risultava più vantaggioso impiegare manodopera abbondante su macchine tradizionali che servirsi di attrezzature più efficienti, ma più costose”.
Quindi indipendentemente dalle intenzioni degli “ingegneri” che le hanno inventate, le macchine nemmeno all’epoca della rivoluzione industriale si sono sottratte alle leggi dell’economia. Il loro utilizzo è stato inversamente proporzionale alla presenza di abbondante forza lavoro a basso costo.
È interessante una osservazione di oltre un secolo di K. Marx nel “Capitale”:
“Considerata la macchina come mezzo per ridurre più a buon mercato il prodotto, il limite d’uso delle macchine è dato dal fatto che la loro produzione costi meno lavoro di quanto il loro uso ne sostituisca”.
Se consideriamo il mercato mondiale nel suo complesso è evidente che questa regola vale anche oggi. Anni luce ci separano in termini tecnologici dai tempi degli inventori inglesi, eppure in varie parti del globo, stanti certi livelli di vita, un “prodotto a buon mercato” non implica ancora l’introduzione di moderni ritrovati che contribuiscano ad alleviare la fatica dei produttori.
Le moderne fabbriche del sudore
Ad esempio il settore dell’abbigliamento in Bangladesh rappresenta l’80% dell’export. Negli ultimi trent’anni il settore ha visto un rapidissimo sviluppo e oggi conta più di 5.000 imprese per oltre 3 milioni di operai (80% donne e anche impiego di numerosi fanciulli). Gli incendi in fabbrica sono all’ordine del giorno, anche in palazzine di recente costruzione perché non sono rispettate le più elementari norme di sicurezza. È possibile trovare stabili di otto, nove, dieci piani con grate alle finestre che sorgono uno vicino all’altro senza nemmeno lo spazio vitale per uscite e scale di emergenza. Il 24 aprile del 2013 un edificio commerciale, il Rana Plaza, crolla a Savar nella periferia di Dacca. Il più grave incidente mortale avvenuto in una fabbrica tessile nella storia e che ha prodotto 1.129 vittime e centinaia di persone mutilate, prive di arti e con lesioni permanenti o paralizzati. La fabbrica produceva abiti per grandi firme famose in tutto il mondo.
C’è di che riflettere, da una parte industria concentrata, tecnologia e alta produttività dall’altra lavoratori condannati a lavorare nelle “fabbriche del sudore”… non sanno che Hubble è in orbita, per scrutare gli spazi siderali.
INGEGNERE EUROPEO E INGEGNERE CINESE
Dall’acciaio una visione mondiale
Quella dell’acciaio è una delle lavorazioni chiave per tutti i settori della produzione. Comprenderne lo sviluppo significa analizzare il cozzare di enormi interessi economici e delle loro espressioni politiche, il grado diverso di sviluppo delle industrie nazionali e continentali in concorrenza tra loro e fenomeni sociali che afferrano milioni di uomini riverberandosi anche in altri settori quali l’automobile, l’industria dei mezzi di produzione, l’elettromeccanica ecc. Un tale intreccio non può essere considerato che su scala mondiale.
Oltre al mondo, l’altra dimensione per capire l’acciaio è la storia. Non tanto la storia della metallurgia o della chimica dei metalli, ma la storia della società, perché l’acciaio è innanzitutto un prodotto del lavoro sociale.
Ad esempio, oggi in Europa l’Ilva è contesa tra ArcelorMittal e AcciaItalia, ma questo è solo il più recente episodio di un processo ultradecennale di concentrazione del settore che ha coinvolto negli ultimi decenni tutti i principali produttori mondiali: l’Europa e gli USA negli anni ’70, il Giappone negli ’80, l’URSS nella repentina decompressione degli anni ’90 … e oggi la Cina. Senza una visione mondiale, e senza una conoscenza storica, non è possibile impostare nemmeno una battaglia di difesa degli interessi immediati dei lavoratori, dei tecnici e degli operai in una qualsiasi fabbrica di acciaio della vecchia Europa.
Dopo la guerra, nei decenni dei “miracoli economici”, si assistette ad alti ritmi d’incremento. Apparentemente, l’acciaio si trasformava nel condominio in cemento armato, nell’autostrada, negli elettrodomestici, nella catena di montaggio, nella Cinquecento. Soprattutto si trasformava nei profitti accumulati dai produttori europei, in una corsa in cui ciascuno ampliava la capacità come se l’intero mercato dipendesse solo da lui. Come sempre accade nel corrente sistema economico, lo sviluppo non era armonioso e presentò dei conti da pagare. Esaurito il ciclo del “miracolo”, giunse il tempo della crisi di ristrutturazione. La siderurgia europea in sovraccapacità fu sottoposta a un programma di tagli e chiusure: il Piano Davignon, dal nome del commissario europeo per l’industria dell’epoca. Si trattò di gestire la crisi attraverso un cartello europeo che avviò la concentrazione del settore in grandi gruppi continentali. I lavoratori europei dovettero difendersi contro i licenziamenti e gli effetti sociali che la crisi scaricava immancabilmente su di essi. È il prezzo paradossale del capitalismo: lo sviluppo delle forze produttive non sembra rappresentare un vantaggio sociale. Lo scopo della siderurgia non era produrre acciaio ma produrre profitti. Centinaia di migliaia di lavoratori vennero espulsi dal settore alla ricerca di modi di produrre acciaio più remunerativi per il capitale.
La crisi di ristrutturazione non significò però crisi siderurgica. Ecco l’andamento della produzione nelle vecchie potenze (Europa, USA, Giappone e URSS):
Ma ecco l’andamento nelle nuove aree di sviluppo nelle stesse date:
Il grafico a fianco inoltre mostra lo sviluppo differenziato dei vari paesi e il mutare del loro peso reciproco. Balza all’occhio il mutato peso della Cina. Considerato anche il suo peso demografico si potrebbe dire che un mondo si è aggiunto al vecchio. Ciò non può non riflettersi nell’industria mondiale, ma anche nella politica, nelle psicologie sociali e nelle ideologie.
Sembra che oggi in Occidente le vecchie ideologie della crescita e della prosperità infinta vengano riposte nuovamente in soffitta, e si rispolverino invece quelle, altrettanto vecchie, del protezionismo, un po’ razzista come una volta, ma magari europeo anziché nazionale. Che paradosso: proprio quelle metropoli che fino a ieri, realizzando profitti anche nelle aree emergenti, erano le cattedrali del libero mercato, oggi fanno i conti col proprio declino relativo e guardano la Cina, al cui falso socialismo ormai non crede più nessuno, diventare paladina del liberismo e nuovo araldo della globalizzazione.
Un fatto è che, dopo decenni di impetuoso sviluppo interno, anche la Cina è investita da una crisi di ristrutturazione siderurgica, del tutto simile a quella attraversata dall’Europa una quarantina di anni fa. La capacità sarà tagliata e concentrata. Gruppi dai nomi per ora poco noti in Europa, come Baosteel, Wuhan Steel, Hebei Steel o Shoungang Steel si stanno fondendo tra loro e formeranno giganti nella “Top Ten” mondiale. È un “piano Davignon cinese”, con proprie caratteristiche. Verranno licenziati milioni di lavoratori cinesi, e i riflessi saranno mondiali.
È necessario che i tecnici e gli ingegneri in Europa, immersi da capo a piedi nell’industria mondiale, studino e assimilino la storia di questi processi. La variante europea è utile per comprenderne la variante cinese, certo. Ma innanzitutto è necessario non farsi afferrare dalle ideologie: qualcuno ha paura della Cina. Ma di cosa avete paura? Milioni di lavoratori cinesi vivono una pesante ristrutturazione, che i salariati europei attraversarono anni fa. Nelle stesse fabbriche aumenta al contempo la composizione tecnica del processo produttivo. Sono sempre più anche in Cina gli ingegneri e i tecnici. Solo la coalizione tra i lavoratori è la via per liberare le forze produttive dalla lotte per il profitto.
Bisogna essere ciechi per non vedere che l’ultima generazione della Cinquecento, al di là della superficiale apparenza del “made in Italy”, è in realtà simbolo del “made in everywhere”, una collaborazione mondiale che va dall’ingegnere all’immigrato, dall’industria estrattiva nella più sperduta periferia sino all’industria informatica della più sfavillante metropoli.
È necessario per la coalizione dei tecnici e degli ingegneri porsi quindi all’avanguardia di questo esercito mondiale di produttori, alzare lo sguardo sul mondo, comprendere appieno i processi in corso ed emanciparsi dall’interesse particolare dell’industria nazionale o continentale: rifiutare che il tecnico e l’ingegnere cinese possano essere il nemico. L’interesse dell’ingegnere europeo è quello dell’ingegnere cinese, indiano, americano, russo, siriano: la loro libera associazione è l’unica risposta.
invito all’incontro