Bollettino 2016 dicembre

Bollettino 2016 dicembre

L’economia mondiale è attraversata da preoccupazioni e timori legati a diversi fattori e avvenimenti politici di rilievo. Il tasso di crescita rimane molto basso per i paesi più sviluppati e continua un rallentamento per i paesi emergenti.

Le analisi sono più o meno convergenti per quanto riguarda la “malattia” mentre la “cura” non è ancora stata trovata. Calo degli investimenti, modesta crescita della produttività, persistenza di inflazione troppo bassa, debiti ancora troppo elevati, strumenti delle banche centrali ridotti (tasso di riferimento prossimo allo zero) e generale mancanza di fiducia di fronte alle incertezze geopolitiche, sono questi gli aspetti principali che caratterizzano la fase attuale.


SOMMARIO

Titolopag.
Ristrutturazione e produttività1-8
Oil & Gas2-3
L’ingegnere nella storia (parte II)4-5
Terzo incontro del “triangolo” MI-TO-GE6
Industrializzazione della scienza7

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RISTRUTTURAZIONE E PRODUTTIVITÀ

Il Brexit inglese pone una lunga serie di interrogativi, così come la nuova presidenza americana di Donald Trump. È aperta inoltre la possibilità di oscillazioni politiche legate al referendum in Italia e alle prossime elezioni in Francia e Germania. La regione nordafricana e il Medio Oriente restano zone costellate di situazioni irrisolte dal punto di vista politico e militare.

La competizione si accentua in tutti i settori e spinge a processi di ristrutturazione a concentrazioni e fusioni. La produttività è il fronte principale su cui si combatte. In una recente brochure del governo italiano, concepita per attrarre investimenti, troviamo argomentato che: «l’Italia off re un livello di salari competitivo che cresce meno rispetto al resto della Unione Europea e una forza-lavoro altamente qualificata». Non si può pensare di essere competitivi agendo solo sul contenimento dei salari. La produttività è fondamentalmente un problema

di investimenti, il capitale impiegato per addetto fa la differenza e, di certo, in Italia la dimensione ridotta delle imprese è un limite per gli investimenti. Secondo Eurostat siamo il paese con il maggior numero di imprese 3,77 milioni, contro 3milioni della Francia, 2,2 milioni della Germania, 2,3 milioni della Spagna e 1,7 milioni per la Gran Bretagna. La struttura dimensionale è dominata dalla forte prevalenza di piccole e micro imprese (con meno di 50 addetti): le unità produttive di queste classi rappresentano il 99,4 per cento del totale, e impiegano oltre i due terzi dell’occupazione complessiva. Rispetto agli altri paesi europei, c’è una scarsità di grandi imprese (oltre i 250 addetti): sono circa 3 mila in Italia, in Germania sono oltre 10 mila, nel Regno Unito quasi 6 mila e in Francia oltre 4 mila. In Italia le grandi aziende rappresentano il 20,2 per cento dell’occupazione contro circa il 37 per cento in Germania e Francia e il 27,7 per cento in Spagna. (Vedi Fig. 1) Il rapporto annuale ISTAT del 2015 mostra bene come nel settore manifatturiero, ancora più che in quello dei servizi, la produttività per addetto cresca quasi linearmente con l’aumento dei dipendenti. Certamente nelle aziende con più di 250 addetti è ampia la forbice di produttività ma, in ogni caso, anche nel quartile di grandi aziende meno produttive, si genera un valore aggiunto per addetto superiore di gran lunga alla migliore micro azienda. (Fig. 2)

Imprenditori cinesi per l’Europa

Se in Europa l’incertezza generale frena gli investimenti, dall’Asia si manifestano agguerriti concorrenti. La Cina entro fi ne anno sarà il primo paese extra UE per numero di addetti; da gennaio ad agosto ha acquistato o investito in 9.236 aziende UE con 147.780 addetti. Due anni fa le attività Cinesi in UE valevano 15 MLD€ di fatturato, nei primi 8 mesi del 2016 sono già a 100 MLD€. (Affari e finanza 19/9/16).

Huawei un caso da manuale

La crescita della Huawei è così forte da diventare “caso” da studiare alla Harvard Busi­ness School. L’Italia è il mer­cato più importante per gli smartphone Huawei dopo la Cina. La compagnia (che ha 16 centri di R&S nel mondo) aveva il 5,6% del mercato nel 2014 ora si attesta ad un 23,6%. (La Stampa 31/10/16)

L’innovazione tecnologica è strategica, crea opportunità e spesso proprio i nuovi arrivati sparigliano le carte. Huawei è forte della produzione sia di reti elettriche che di cellulari. Punta a superare Samsung, leader del settore, oggi più in difficoltà dopo il lancio errato del Galaxy Note 7.

Significativo è vedere le vendite nel modo del 3° trime­stre: tra le top 5 dopo le “vec­chie” Apple e Samsung ci sono ben tre gruppi cinesi, oltre a Huawei anche OPO (7% del mercato) e VIVO(5,8%). (Fig. 3)

Trasformazioni tecnologiche

Lotte tra gruppi, evo­luzione dei processi produt­tivi con ibridazione tra settori diversi aumentano le incer­tezze e rendono molto diffi­cile prevedere i futuri scenari. Ad esempio, gran parte della memoria e della potenza di calcolo sono ora instal­late nel CLOUD computing (la “nuvola”). Quando guardiamo un film su Netflix, quando ascoltiamo la musica su Spo­tify, quando scegliamo dove dormire su AirBnb immagini e suoni sono lì, sul nostro smartphone o nel nostro Pc ma ci arrivano da un posto lon­tano e un po’ misterioso: dalla nuvola. Secondo alcuni com­mentatori la nuova miniera d’oro dei giganti del digitale. La nuvola però non è immate­riale, è composta da una rete di migliaia di server messi in fila in enormi “fattorie”, refri­gerate a dovere e alimentate da mini centrali, da cui ogni giorno passano un numero crescente di Zettabyte (mille MDI di gigabite). Nel 2015 erano 2,9 zettabyte, 4 nel 2016 e si ipotizza di arrivare a 8,6 nel 2019. Secondo l’osservatorio sul cloud del politecnico di Milano (Repubblica 1/11/16) stiamo di fatto assistendo “all’industrializzazione delle infrastrutture informatiche come nell’800 per il cotone, quando si passò dalla pro­duzione casa per casa ad un unico grande edificio: la fab­brica”. Il mercato del cloud vale 200 MLD$ all’anno. A dominare dal 2006 è AMAZON (Fig. 4) coi suoi data center mondiali che tengono in piedi servizi di Netflix, Tinder e altri milioni di siti aziendali. Per ogni dollaro da e-commerce AMAZON ne incassa 0,03, mentre per ogni dollaro di serivzi cloud ne guadagna 0,25, ovvero 8 volte tanto. Più si svilupperà inter­net delle cose e industry 4.0 e più ci sarà bisogno di cloud e per questo i gruppi continuano a investire (26MLD$ nel 2015) “ma solo pochi sono in grado di farlo perché mettere su un data center costa come trivel­lare un pozzo di petrolio”.

Globalizzazione 2.0

In generale la concorrenza si accentua e questo spiega anche qualche spinta prote­zionista in atto. Si discute di globalizzazione regolata, glo­balizzazione gestita, appunto globalizzazione 2.0. Non un dibattito accademico astratto ma, in realtà, il confronto sugli strumenti e sulle strategie per fronteggiare l’emergere di nuove potenze. Nelle ultime settimane si è manifestato un certo nervosismo da parte del governo tedesco, che ha scelto di congelare l’acquisto di AIX­TRON (tecnologia per chip) da parte di un fondo cinese GRAND CHIP INVESTIMENT.

Nell’anno sono esplose le M&A cinesi in Germania, 10 MLD€ spesi nell’High Tech con­tro i 2,4 MLD del 2014, con Berlino che aveva già cercato (invano) di trovare alternativa ai cinesi di Midea per la KUKA (robot). Anche l’offensiva di MLS(Cina) sulla divisione Ledvance della OSRAM (par­tecipata al 17,5% da Siemens) è stata bloccata dal governo. C’è anche chi ha sollevato la necessità di avere organismi di difesa in caso di mancata RECI­PROCITA’, ad esempio dotare l’Europa di uno strumento tipo il CFIUS americano (The Com­mitee on Foreign Investment in the United States) per fer­mare le operazioni sgradite nei settori strategici. (Affari e finanza 31/10/16)

Abbiamo già visto nell’ac­ciaio la richiesta di maggiori dazi antidumping UE contro la Cina e la levata di scudi contro la possibilità di concedere lo status di economia di mercato al gigante cinese. Siamo su un terreno “scivoloso”. In que­sto modo ingegneri, tecnici e operai vengono gettati gli uni contro gli altri nella lotta tra gruppi economici men­tre le condizioni di precarietà e incertezza li accomunano ovunque.

Connessioni

Quindi dalle lotte econo­miche i lavoratori sono con­tinuamente divisi, mentre lo sviluppo delle forze produttive li spinge verso una maggiore collaborazione (Vedi anche articolo pag. 7).

Connessione infatti è un termine che non vale solo per il mondo digitale. Nel libro “Connectography” appena pubblicato da P.Khanna la pre­messa che viene sviluppata è degna di nota. Secondo il ricercatore indiano l’umanità costruirà più infrastrutture (ponti, autostrade, oleodotti, linee ferroviarie, reti elettri­che, reti di telecomunicazioni) nei prossimi 40 anni di quante ne abbia costruite negli ultimi 4000 anni. Già oggi le reti della logistica sono talmente com­plesse, ramificate e diversi­ficate che su ogni prodotto andrebbe messa l’etichetta “Made in everywhere” .

Grandi potenzialità mostra il lavoro associato ma questa crescente capacità rischia di finire distrutta perché piegata a logiche di profitto e impu­gnata nella lotta tra gruppi economici e Stati.

Occorre mettere a fuoco quali sono i nostri reali inte­ressi come lavoratori e muo­versi di conseguenza. La connessione anche tra di noi è una forza che possiamo met­tere in campo.


OIL & GAS
Le incognite dei cicli di investimento attraversano Stati e compagnie

Una ricognizione del mercato dell’Oil & Gas, a distanza di circa un anno da quando è stato trattato l’argomento nel primo numero del bollet­tino, può essere utile per verificare le dinamiche e le tendenze messe in atto a partire dal crollo dei prezzi petroliferi iniziato nel 2014.

L’incognita dei prezzi

Il prezzo del petrolio si è stabilizzato da alcuni mesi intorno ai 50 dol­lari al barile. Si tratta di un valore sensibilmente più alto dei picchi in basso raggiunti un anno fa (circa 30 dollari al barile), ma molto lontani dai valori pre-crisi. Gli analisti sono discordi nel fare previ­sioni, almeno a medio termine.

Da una parte c’è chi non vede mutamenti sostan­ziali per via del perma­nere dei fondamentali che hanno generato la crisi: il rallentamento dell’econo­mia cinese e, in seconda battuta, l’eccesso d’offerta anche per via delle guerre commerciali incro­ciate tra Arabia Saudita e trivellatori americani dello Shale Oil ma anche tra Arabia Saudita e Iran (in questo caso la guerra petrolifera è solo uno degli aspetti di un con­fronto globale tra le due potenze mediorientali che si fronteggiano in una par­tita diplomatica, econo­mica e militare).

Dall’altro lato ci sono scommesse su un nuovo boom dei prezzi petroli­feri, come recentemente prefigurato da Amin H. Nasser, CEO di Saudi Aramco, il gigante statale saudita del settore petrolifero e probabilmente una delle più grandi società del mondo in termini di fatturato. Secondo Nas­ser (“La Stampa” 27/10/16), a causa dei bassi prezzi petroliferi degli ultimi due anni, sono venuti a mancare investimenti per 1.000 miliardi di dollari nelle esplorazioni petro­lifere e negli ammoder­namenti degli impianti esistenti.

Questo fatto, secondo Nasser, comporterà nel prossimo futuro una forte carenza nell’offerta che non colmerà la domanda complessiva. Questo fat­tore potrebbe spingere di nuovo il prezzo del barile verso i 150 dollari.

I timori delle Oil Company

In questo momento tut­tavia, a differenza delle previsioni di Nasser, assi­stiamo al fenomeno oppo­sto. Cioè, le grandi Oil Company si apprestano a produrre più petro­lio e gas di quanto non abbiano mai fatto nono­stante il crollo dei prezzi, i tagli di spesa e i tagli di posti di lavoro delle stesse società. Mentre infatti ExxonMobil, Shell, British Petroleum insieme alle altre grandi compagnie petrolifere lottano contro i crolli del fatturato e degli utili, numerosi progetti iniziati anni fa (durante gli anni dorati del prezzo sopra i 100 dollari) stanno per entrare in produzione. Secondo le stime degli analisti (Europe Oil & Gas Monitor – settembre 2016) la produzione delle prime sette società petrolifere mondiali aumenterà di quasi il 10% tra il 2015 e il 2018. Ovviamente le società petrolifere spe­rano in un rialzo dei prezzi che, insieme all’aumento della produzione, determinerebbe un aumento dei fatturati, degli utili e, quindi, dei dividendi.

Cicli di investimento e tecnologia

Questo fenomeno è ovvio poiché i cicli di investimento nell’ Oil & Gas, settore ad altissima intensità di capitale, sono necessariamente molto lunghi: almeno 10 anni dall’inizio delle esplora­zioni alla messa in ser­vizio degli impianti di estrazione e trattamento.

La complessità degli impianti tende ad aumen­tare considerando le esplorazioni in aree sempre più impervie, dalle profondità oceaniche alle zone artiche. Sono inter­valli temporali dei cicli di investimento che mal si accordano con le oscilla­zioni repentine del cao­tico mercato mondiale dei prezzi. Proprio in que­sto momento di depres­sione dei prezzi petroliferi stanno per entrare in servizio alcuni megapro­getti partiti anni fa: alcuni esempi sono la piena produzione del gigante­sco campo di Kashagan in Kazakistan, oppure la messa in servizio della piattaforma Goliat nel mare di Barents. Altri progetti partiti nel pieno della fase degli alti prezzi entrano ora nella fase decisiva, come il campo Johan Sverdrup nel mare del Nord o il campo di Kri­shna Godavari al largo della costa est dell’India. Si tratta di progetti gigan­teschi, al limite delle tec­nologie attualmente esistenti, che hanno visto e vedono l’impegno di migliaia e migliaia di tec­nici, ingegneri, oltre che di operai per la costru­zione e la messa in opera degli impianti.

Kashagan, costato 50 miliardi di dollari in 15 anni di sviluppo, dovrebbe produrre 360.000 barili al giorno. Le difficoltà tecni­che del progetto, legate a fattori ambientali (condi­zioni climatiche tra le più severe) e chimico/fisiche dei pozzi (pressioni altis­sime e idrocarburi estre­mamente corrosivi) sono state formidabili. Addi­rittura, per questo pro­getto, la Shell, una delle società consorzianti, ha sviluppato appositamente un robot adatto a svol­gere delle mansioni in piattaforma normalmente svolte dall’uomo, proprio per via dell’ambiente par­ticolarmente ostile in cui si deve operare.

Secondo quanto dichia­rato da Shell (Financial Times 13/09/16) le sfide ingegneristiche che si sono dovute superare per lo sviluppo di un robot capace di operare in ambienti potenzialmente esplosivi e corrosivi sono maggiori di quelli che la NASA ha dovuto affrontare per lo sviluppo delle sonde marziane.

Goliat è invece una piattaforma circo­lare da 64.000 ton­nellate e 107 metri di diametro. Produce in con­dizioni estreme, essendo ancorata in prossimità di Capo Nord, circa 100.000 barili di petrolio al giorno e ospita 120 lavoratori. Rappresenta un’avan­guardia nell’ambito dell’ingegneria navale e strutturale.

Il campo offshore di Johan Sverdrup di Sta­toil entrerà in piena pro­duzione nel 2019 per un totale di 650.000 barili giornalieri. Prevede la costruzione di 4 piatta­forme offshore e l’alimen­tazione elettrica dalle coste norvegesi. Il bud­get stimato per la realiz­zazione è di 21 miliardi di dollari.

I paradossi dell’organizza­zione sociale

A parità di altre condi­zioni è chiaro che il river­sarsi sul mercato mondiale di centinaia di migliaia di barili di nuova produzione avrà probabilmente più un effetto deprimente che un effetto esaltante sui prezzi petroliferi. E que­sto genera apprensione presso i consigli di ammi­nistrazione delle grandi compagnie petrolifere.

È veramente un para­dosso che la soluzione di sfide tecniche incredi­bili, che ha visto l’impe­gno di migliaia e migliaia di lavoratori, venga vista potenzialmente come una disgrazia. Ma questo è essenzialmente il frutto del modo in cui è orga­nizzata la società nel suo complesso e poco ha a che vedere con la solu­zione dei problemi della produzione e della realiz­zazione di beni e servizi.

M&A

I bassi prezzi petroli­feri avevano suggerito agli analisti lo scorso anno una intensificazione delle ope­razioni di M&A (acquisi­zioni e fusioni) nel settore dell’Oil & Gas che in realtà per tutta la prima parte del 2016 sono diminuite rispetto all’equivalente periodo del 2015 (Europe Oil & Gas Monitor – set­tembre 2016).

Le attività di M&A, più che svilupparsi tra le Oil Company (ad eccezione dell’acquisizione di BG da parte di Shell), si sono concentrate nei cosid­detti OFSE (Oilfield Servi­ces and Equipment) cioè i grandi Contractor inter­nazionali, con due grandi operazioni soprattutto: l’acquisizione di FMC da parte della francese Tech­nip per 14 miliardi di dol­lari e la fusione del settore oil & gas di General Elec­tric con Baker Hughes, un’operazione da 30 miliardi di dollari.

Da queste operazioni di riorganizzazione e razio­nalizzazione il rischio con­seguente è che siano i lavoratori a pagarne gli effetti.

Oil & Gas in Italia

Il settore dell’Oil & Gas è fortemente presente in Italia. Grazie al traino di ENI e di Montedison (gruppo attivo con que­sto nome fino al 2002 nel settore affine della petrol­chimica), negli anni ’50 e ’60 si sviluppò un ampio tessuto di società di inge­gneria, di cantieristica e di costruzioni meccaniche, ulteriormente sviluppatosi coll’affacciarsi di multinazionali estere che aprirono importanti filiali in Italia. Il panorama attuale si pre­senta naturalmente molto trasformato da allora ma, nonostante il ridimensio­namento, ha ancora un peso notevole. La crisi attuale del settore, che si somma a una ristruttura­zione dovuta all’ingresso sul mercato soprattutto dei contractor di nuovi concorrenti asiatici, si sta facendo sentire a tutti i livelli: dalle medie offi­cine meccaniche forni­trici dei grandi contractor, alle grandi società di inge­gneria e costruzione, arri­vando a toccare il gigante ENI. Gli esempi non man­cano: dalla continua emor­ragia di posti di lavori in Technint, alla crisi che sta attraversando il gigante Saipem, passando per il settore Oil & Gas di ABB in cui è in atto ormai da parecchi mesi la cassa integrazione.

La necessità di una difesa collettiva

Il problema è che spesso i lavoratori coin­volti hanno affrontato tali processi di ristruttura­zione contando su solu­zioni personali. Del resto le incentivazioni all’esodo, come strumento per favo­rire l’espulsione di per­sonale in queste realtà, è molto usato in quanto fa leva proprio sulla propensione di questi lavoratori a trovare soluzioni indi­viduali a quelli che sono problemi generali. È il portato naturale di ideo­logie che hanno parlato a lavoratori altamente qualificati, inducendoli a credere che la loro situazione, il rapporto che li lega al datore di lavoro, fosse diverso da quello degli operai. I fatti stanno smentendo que­sta visione. Gli ingegneri, i tecnici che lavorano in queste realtà se ne stanno accorgendo sulla loro pelle. Solo la coali­zione, la difesa comune di comuni interessi è la via.

Del resto, nonostante tutto, ci sono episodi importanti al riguardo, che mostrano una organizzazione per la difesa di lavoratori del settore: dallo sciopero di settore in Norvegia a settem­bre, al grande sciopero dei lavoratori della Wood Group, un contractor che lavora nel mare del Nord per Shell, il più grande sciopero visto nell’ultima decade (Finan­cial Times 22/7/16), alla lotta dei lavoratori Exxon del campo di Bass Strait (Australia) contro l’impo­sizione di nuove regole di permanenza in piatta­forma. Questi sono sol­tanto alcuni esempi di lotte organizzate di lavo­ratori qualificati (tecnici e ingegneri) con alti livelli di reddito, infatti i lavora­tori australiani di Exxon hanno salari che arrivano a 170.000 dollari all’anno secondo Asia Oil & Gas monitor di agosto.

Sono situazioni che devono farci riflettere sulla possibilità, oltre che sulla necessità, che lavo­ratori ad alti livelli profes­sionali e salariali possano trovare nell’unione la via per la difesa della loro condizione.


L’INGEGNERE NELLA STORIA
Parte II: L’artista

Proseguiamo con gli articoli a carattere storico. L’intento, come abbiamo già esplicitato, è quello di fornire spunti di riflessione a proposito della “figura” e della collocazione sociale degli ingegneri nel corso dei secoli. Tappe utili anche per meglio comprendere la situazione attuale.

Il lento e faticoso svi­luppo delle forze produt­tive nell‘antichità classica influenzò il pensiero filosofico. Quest’ultimo in genere fece propria l’i­dea, tanto “innaturale” per noi, che il mondo sia dotato di una sua stabi­lità, che non vi sia ciò che oggi si intende chiamare progresso, che ascesa e declino sociale siano parti intimamente connesse di un unico ciclo che si ripete continuamente. A tal proposito l’imperatore e filosofo romano Marco Aurelio, (121-180 d.c.) scri­veva nei suoi “Ricordi”: “L’anima razionale vaga nel mondo e attraversa il vuoto che tutto circonda e considera le periodi­che distruzioni e rinascite dell’universo, e riflette che la nostra posterità non vedrà niente di nuovo, e che i nostri antenati non videro niente di più grande di ciò che abbiamo visto noi. Un uomo di quarant’anni che abbia un’in­telligenza molto modesta ha visto tutto ciò che è pas­sato e tutto ciò che è da venire; tanto uniforme è il mondo”.

L’idea di progresso

Un diverso avviso comincia a farsi strada solo molto tempo più tardi. Già il francescano inglese Ruggero Bacone (1214-1294) parla nella sua “Epistola de secretis ope­ribus” di un futuro con veicoli senza traino ani­male, di macchine volanti e sommergibili; ma seb­bene proprio a lui alcuni facciano risalire una primi­tiva formulazione dell’idea di progresso è tre secoli dopo che essa si afferma in modo chiaro.

ll suo omonimo e conterraneo France­sco Bacone (1561-1626), Giordano Bruno (1548-1600) e Tommaso Campa­nella (1568-1639) ne sono, non senza funeste con­seguenze per loro, tra i più decisi portabandiera. E se per il Campanella gli uomini della “Città del sole”: “…han trovato l’arte di volare, che sola manca al mondo, ed aspettano un occhiale di veder le stelle occulte ed un oricchiale d’udir l’armonia delli moti di pianeti…”, è ad un col­legio di scienziati che è demandato da F. Bacone il compito di governare la “Nuova Atlantide”.

Agli occhi degli umani­sti del seicento gli inven­tori di macchine non paiono più degli esclusi, anzi proprio all’unità di “azione e contemplazione” corrisponde per Giordano Bruno il meglio dell’espressione umana.

Non a caso è imme­diatamente a monte di questi pensatori che si col­loca l’opera degli “inge­gneri” del Rinascimento. Costoro sono uomini che si sfor­zano di dare una sintesi unitaria a saperi dalla prove­nienza più diversa, sono interes­sati alle “soluzioni generali” (per dirla come Bertrand Gille, ”Leonardo e gli ingegneri del rinascimento”), ma al con­tempo non insensibili alle applicazioni pratiche ed al risultato economico dei loro ritrovati, infine: pro­vengono in genere da una unica esperienza, quella artistica.

Dall’arte alle macchine

Tengo in serbo ciò che so fare, non credere che faccia qualcosa senza riceverne la ricompensa”, scrive nei suoi appunti il Taccola. E Leon Battista Alberti (1404-1472), letterato, scienziato, artista ed architetto, parla nella sua opera di porti, mulini e silos come di “…comodità che, nonostante siano di poco valore, arrecano tut­tavia grandi profitti”. David Landes in “Pro­meteo liberato” ci descrive Benvenuto Cellini (siamo nel ‘500) escogi­tare l’applicazione di sfere di scorrimento alla base delle sue pesanti statue, e prima di lui Filippo Brunel­leschi inventò un rudimen­tale strumento ottico per lo studio della prospet­tiva. Artisti, insomma ed inventori per necessità.

Ha scritto B. Gille a pro­posito del senese France­sco Giorgio Martini: “…Vediamo con lui formarsi il tecnico dell’epoca. Agli inizi è uno scultore. Allor­ché la statuaria di bronzo riconquista importanza, egli deve essere anche fonditore, proprio nel momento in cui l’artiglieria di bronzo soppianta quella di ferro forgiato. Costruttore di statue egli è anche costruttore di can­noni. Quest’ultima atti­vità lo conduce nelle file degli eserciti e partecipa ad assedi che richiedono l’impiego di numerose altre macchine. Artista e militare, egli diventa in maniera del tutto naturale architetto e costruttore di fortezze. Le condutture d’acqua, l’organizzazione delle feste, tutto ormai gli è aperto. Il contatto con gli scienziati innamo­rati dell’esperienza e della realtà, la familiarità con mercanti che perfezionano i loro metodi di calcolo, una sete straordinaria di conoscenze, discussioni interminabili, l’amore della generalizzazione, il gusto per i concetti astratti, que­sti sono gli elementi che si verranno fondendo in un medesimo crogiolo”.

Leonardo

Leonardo da Vinci (1452-1519) non ha biso­gno di presentazioni ed è l’emblema degli ingegneri rinascimentali. Classico il suo percorso biografico. A quattordici anni entra come apprendista nella bottega fiorentina del Ver­rocchio, vi resterà per due lustri imparando l’anato­mia, i problemi della pro­spettiva, la fusione dei metalli, il calcolo algorit­mico. SI iscrive alla cor­porazione dei pittori e, venticinquenne, inizia un pellegrinaggio ininter­rotto destinato a portarlo a servizio delle maggiori casate italiane ed euro­pee. Passa dalla Milano degli Sforza a Venezia, diviene via via consigliere tecnico dei Borgia, dei Medici e dei reali di Fran­cia. È pagato per studiare e consigliare, più raramente realizza opere, e spesso queste sono degli automi, molto di moda nelle feste nobiliari.

È un artista ma, come testimonia la sua lettera a Ludovico Sforza, con­sidera quello dell’inven­tore essere il suo mestiere principale. È “…un inge­gnere della schiatta degli ingegneri del suo tempo”, scrive Gille.

Scienza e Rinascimento

Del rinascimento Frederich Engels (“Dialettica della natura”) ha espresso questo giudizio:

Fu il più grande rivolgi­mento progressivo che l’u­manità avesse fino allora vissuto: un periodo che aveva bisogno di giganti e che procreava giganti: giganti per la forza del pensiero, le passioni, il carat­tere, per la versati­lità e l’erudizione. Gli uomini che fon­darono il moderno dominio della bor­ghesia erano tutto, fuorché limitati in senso borghese. (…) Non vi era allora alcun uomo di rilievo che non avesse fatto grandi viaggi, che non parlasse quattro o cinque lingue, che non brillasse in parec­chie discipline”.

A pieno diritto gli inge­gneri dell’epoca fanno parte di questa genia di uomini e sono quelli che pongono le basi per la moderna ricerca scientifica.

Certo, osservando il materiale documentario lasciatoci, è spesso diffi­cile distinguere tra con­creto e fantasia nel lavoro di questi progettisti. Non è un caso, però, che tra i disegni più precisi e dettagliati di Leonardo da Vinci ci siano delle mac­chine tessili. È dubbio che siano mai state realizzate, ma sono il frutto di una attenta osservazione del lavoro pratico dei tessi­tori, sono il tentativo di “automatizzare” gesti e processi manuali.

L’osservazione

Proprio l’osservazione è il punto di partenza del metodo scientifico. Ed è la grande conqui­sta degli ingegneri rina­scimentali. Poco importa se un Leonardo la appli­chi di volta in volta al telaio o ad una macchina per volare. Di quest’ultima ci resta ad esempio un nutrito insieme di conside­razioni sul veleggiamento, sul rapporto peso aper­tura alare, sul ruolo delle penne, sulla conforma­zione dell’ala di pipistrello (più facile da riprodurre artificialmente), sulla posi­zione ideale per il volo umano, sulla necessità di applicare ali a braccia e gambe insieme …fino a come cavarsela in caso di caduta.

Per giungere alle mac­chine vere il metodo era posto, ma i tempi non erano ancora maturi. Soprattutto non lo erano dal punto di vista sociale. In uno scritto del 1579 l’a­bate italiano Lancellotti racconta:

In Danzica, citta della Prussia, Antonio Moler (Müller) riferiva, non sono 50 anni, d’aver veduto con i propri occhi un artificio ingegnosissimo al quale si facevano lavorare da se stessi quattro, sei pezze… Ma perché tanti poveri huomini che vivevano col tessere sarebbero morti di fame, fu dal magistrato di quella città prohibita quell’inventione, e l’au­tor segretamente fatto affogare”.


TERZO INCONTRO DEL TRIANGOLO
MI-TO-GE

I lavori del terzo incon­tro del triangolo sono stati aperti da un collega della Leo­nardo che ha precisato come la scelta di riunirsi a Genova non sia stata casuale. Negli ultimi mesi la città è stata testimone di iniziative di rivendicazione e mobilitazione da parte di colleghi, in partico­lare di Leonardo e di Erics­son, in difesa del posto e delle condizioni di lavoro. Scio­peri, picchetti e “blocchi stra­dali” di ingegneri e quadri che hanno stupito commentatori e giornalisti, perché convinti che difendersi collettivamente sia solo una prerogativa degli operai in “tuta blu”.

Invece oggi la componente impiegatizia rappresenta la maggioranza dei lavora­tori nelle città più industrializzate d’Italia e d’Europa. Inevitabilmente di fronte alla profonda ristrutturazione in corso anche questi strati sono e saranno pesantemente coinvolti. Si conferma dun­que la necessità di un coordi­namento di questi lavoratori spesso altamente scolarizzati ma poco abituati ad un’azione in comune.

Inoltre abbiamo più volte sottolineato la necessità “pra­tica” di guardare oltre confine come uno degli obiettivi del nostro coordinamento e qual­cosa si sta muovendo.

Ha portato il saluto alla riu­nione uno studente di inge­gneria di Genova. Nonostante 8 su 10 dei neolaureati finiranno per essere lavoratori salariati permane, tra gli stu­denti, il mito di diventare “da grandi” i nuovi Bill Gates o Steve Jobs. Secondo Alma­laurea dopo tre anni dalla fine del percorso universitario lo stipendio medio è attorno ai 1000 euro al mese. La realtà è ben diversa dalle aspetta­tive da studenti. Vale la pena, dunque, muoversi da subito per trasformare il futuro in un luogo in cui provare a risolvere le contraddizioni esistenti.

Per Milano è intervenuto un collega di Accenture, quindi il mondo della consulenza informatica. È un segmento che vede in città circa 70.000 informatici in senso stretto che lavorano in vari settori con differenti condizioni contrattuali e normative ma di fatto svolgendo lo stesso tipo di lavoro. Inoltre a Milano esistono concentrazioni di migliaia di lavoratori, vere e proprie cittadelle di uffici che confermano un terreno di lavoro potenziale molto ampio per la diffusione del bollettino.

Il collega di Thales Alenia Space di Torino ha portato un contributo riflettendo sull’in­dustria dello spazio. Un settore che vede una produzione estremamente socializzata. Per realizzare l’ultima sonda su Marte hanno collaborato 74 aziende dislocate in 17 paesi diversi. Il paradosso principale, fonte anche di frustrazione tra i colleghi, è che troppo spesso i progetti sono condizionati più dai problemi finanziari che dalla fattibilità tecnica.

Sono intervenuti anche i colleghi dell’Stmicroelctronics di Milano spiegando il pro­getto a cui hanno partecipato. A settembre in Svizzera (Ginevra) con la collabora­zione di una Ong francese di nome ReAct e nell’ambito di IndustriALL Global Union, si è tenuto il primo incontro del Trade Union Network (TUN) dei lavoratori di St. Ovvero l’inizio di una collaborazione tra i sindacati dei lavoratori dei siti di Francia, Italia, Marocco, Indonesia e Malta per monito­rare e implementare azioni che promuovono i diritti e il miglio­ramento delle condizioni di lavoro. Una unione cross-bor­der a livello sindacale che, per non restare un mero appa­rato burocratico, deve essere conosciuto dai colleghi e deve promuovere iniziative. In diversi stabilimenti, ad esem­pio, si è protestato contro la scelta aziendale di elargire grandi dividendi e contem­poraneamente annunciare tagli di organico. Quindi esuberi di lavoratori anche altamente qualificati che vengono con­siderati solo come un costo e non una risorsa funzionale ad una strategia di sviluppo.

Interessante è stato l’inter­vento di un collega dell’ST di Bouskoura, una sede St vicino a Casablanca in Marocco. Il col­lega era in Italia per presen­tare il TUN negli stabilimenti di Milano ed ha accettato l’invito di intervenire al nostro coordi­namento. Il sito di Bouskoura ha circa 3000 addetti con 1000 tecnici e ingegneri. Casa­blanca è una città da oltre 3 milioni di abitanti una delle più dinamiche dell’Africa e che rappresenta il 20% del PIL marocchino. St ha una pre­senza trentennale nella zona. Fino al 2010 non vi era sin­dacato in fabbrica. I turni di lavoro erano di 16 ore al giorno e spesso il riposo era a cadenza bisettimanale. Nel 2010 un gruppo di lavoratori ha deciso di costituire un comi­tato sindacale e un consiglio allargato composto da operai, ingeneri e tecnici per coinvol­gere i colleghi e far entrare il sindacato in azienda. Al primo volantinaggio, dopo 1 ora i 12 attivisti sono stati licenziati. La risposta (preparata in pre­cedenza proprio nel caso di ritorsioni) è stata pronta. La fabbrica si è mobilitata con sit-in e dopo 30 ore di sciopero l’azienda ha reintegrato i lavo­ratori e permesso al sindacato una presenza all’interno.

È una vicenda istruttiva da diversi punti di vista:

  1. Le multinazionali occiden­tali in altre latitudini “dimenti­cano” i più elementari diritti.
  2. Le condizioni del lavoro anche di ingegneri e tecnici in altri paesi alle porte d’Europa sono ben diverse dalle nostre.
  3. La coalizione può essere effettivamente una forza

La serie degli interventi è terminata con il contributo del collega di Ansaldo Energia di Genova, che ha sottolineato la necessità di far emergere il coordinamento e la coalizione prima e non aspettare a muo­versi magari solo dopo l’annuncio di esuberi.

Nelle conclusioni si è appro­fondito il tema della produtti­vità analizzando i vari aspetti di cui si compone: investi­menti, spesa in ricerca e svi­luppo, scolarizzazione della forza lavoro e quindi sistema scolastico, situazione del cre­dito, infrastrutture, costo dell’energia, burocrazia, fisco, vicinanza ai mercati di sbocco, ecc. Il livello degli stipendi è solo uno degli aspetti e, senza una adeguata risposta dei lavoratori, finisce per essere il più semplice da tagliare. Anche l’esempio di St mostra che non ci sono confini che dif­ferenziano il comportamento dei lavoratori, e che oggi è più semplice di una volta pensare di costruire dei collegamenti fattivi. Stiamo proseguendo, la strada è quella giusta. Pas­sione, costanza, impegno e studio devono essere gli ingredienti base per la nostra azione. Gli obiettivi si possono realizzare unendo le forze di chi già partecipa alle inizia­tive del nostro coordinamento con quelle di tutti coloro che si aggiungeranno nei prossimi mesi.


L’INDUSTRIALIZZAZIONE DELLA SCIENZA

A caccia del bosone di Higgs: magneti, governi, scienziati e particelle nell’im­presa scientifica del secolo” di Luciano Maiani è un testo che descrive le fasi di proget­tazione, costruzione e finanziamento dell’LHC (Large Hadron Collider), l’accelera­tore di particelle col quale è stato rivelato il famoso bosone di Higgs. Il testo offre considerazioni interes­santi su cosa sia oggi una impresa scientifica, tecno­logica, logistica, ingegneri­stica, di ricerca dei materiali e di soluzioni tecniche in rela­zione anche ai costi e alle esi­genze del mercato e alle sue ricadute economiche.

Dimensioni e numeri di LHC

L’LHC è un anello lungo 27 Km e largo 4 m, costru­ito a 100 metri di profondità, che ha al suo interno due macchine rivelatrici di parti­celle, ATLAS e CMS, alti come palazzi di 6 piani, “margine d’errore mezzo millimetro”.

Lo scopo di queste mac­chine è quello di accelerare e far collidere particelle (tipi­camente protoni) ad altis­sima energia per poi studiare i prodotti della collisione.

Poiché parliamo di par­ticelle subatomiche, quindi con masse molto piccole, per essere rivelate occorrono energie molto elevate. La sfida ingegneristica e scien­tifica sta tutta nella costru­zione di macchine che siano il più potenti possibile.

L’LHC è anche il punto più freddo dell’Universo: con i suoi 9593 superconduttori genera un freddo pari alla metà di tutta la potenza crio­genia del mondo”. Nel primo stadio di raffreddamento vennero usate 10 mila ton­nellate di azoto liquido per raffreddare 130 tonnellate di elio. Il raffreddamento delle bobine magnetiche richiede anche una precisione da oro­logiai (1 decimo di mm) nel posizionamento di migliaia di km di cavi supercondut­tori. (G.F.Giudice: “Odissea nel zeptospazio, un viaggio nella fisica dell’LHC”).

Un’enorme quantità di persone provenienti da una trentina di paesi ha contribu­ito a raggiungere l’obiettivo finale attraverso uno sforzo coordinato.

Guido Tonelli, responsa­bile del CMS, nel suo libro “La nascita imperfetta delle cose” parla di oltre 3000 scienziati!

Il cuore tecnologico del­l’LHC sono i magneti, cia­scuno dei quali è costruito da avvolgimenti di cavi tenuti alla temperatura dell’elio superfluido, circa 1,9 Kelvin, ossia –271 gradi centigradi. L’LHC realizza un sistema “superconduttore più super­fluido”, di dimensioni di molti Km, mai raggiunto prima. I cavi sono realizzati da una lega di niobio-titanio per un peso di circa 1200 tonnel­late e una lunghezza com­plessiva di 7000 Km. Negli anni della costruzione di LHC il Cern è stato il mag­giore acquirente mondiale di Nb-Ti assorbendo il 30% della produzione mondiale. Nel 2008 la macchina fu gradual­mente raffreddata. Un’im­presa in sé gigantesca e delicata. “La discesa da tem­peratura ambiente a 80 kelvin (-190 gradi centigradi) di cia­scun settore richiese 10 giorni di tempo, 1200 tonnellate di azoto liquido trasportate da 60 camion da 20 tonnellate ciascuno al ritmo di un camion ogni 4 ore”.

Il problema informatico dei dati raccolti

Anche tutto il sistema di rilevamento dell’enorme quantità di dati prodotti dalla macchina è stato realiz­zato con una grande collabo­razione internazionale.

LHC produce 1 miliardo di collisioni al secondo, di queste quelle utili sono 40 milioni. I dati acquisiti in un anno di funzionamento di LHC raggiungono livelli astro­nomici. “Se fossero messi sui dischi che usiamo per i film commerciali, corrispondereb­bero ad una colonna di dischi alta 20 Km, ovvero l’equiva­lente di 15 milioni di dischi”.

Un’impresa scientifica ormai mondiale

“Ci si imbatteva in tecnici e operai e ricercatori paki­stani, cinesi, americani, isra­eliani, indiani, argentini. Una volta era il turno degli ope­rai russi, solo il caposqua­dra parlava inglese. Erano tutti però molto concentrati e motivati”. “Il Cern, a oltre mezzo secolo di distanza dai fondatori (i fisici che pen­savano alla verità oggettiva della scienza), è ancora in grado di piegare ogni nazio­nalismo o ideologia, che non sia quella della convivenza e della collaborazione”.

Implicazioni politiche internazionali

Questo il clima della ricerca, ma il Cern di Ginevra è anche l’emblema della lotta di concorrenza tra Europa e Stati Uniti, come testimonia il fisico Edoardo Amaldi:

Il loro obiettivo non era soltanto quello di costruire un acceleratore di medie dimen­sioni, ma quello di risvegliare l’Europa”. “Per dare un’idea del clima di competizione tra le due sponde dell’Atlantico, il New York Times del 4 giu­gno 1983, a proposito della scoperta dei bosoni W+W_ e Z° titolava: ‘Europa 3, Usa Z-zero’”.

Logistica e trasporto

Il rivelatore CMS è com­posto di soli 15 grossi pezzi, il più pesante è di 1290 ton­nellate pari al peso di 400 elefanti africani. Il trasporto di queste parti colossali è stato talvolta un’avventura epica e la storia dei due magneti toroidali ne è un esempio. Ogni toroide pesa 2400 tonnellate ed ha un diametro di 12 metri. Date le eccezionali dimensioni del trasporto, fu accurata­mente scelto un percorso che evitasse tunnel, sot­topassi e ostacoli analo­ghi. Ad un certo punto si rese necessario smontare una linea ad alta tensione per attraversare una ferro­via. Nel trasporto da Stra­sburgo a Ginevra si scoprì che la strada passava sotto un ponte che all’epoca del primo viaggio non c’era.

Vennero inviate delle gru per sollevare il magnete e farlo passare sopra al ponte per poi ricaricarlo nuovamente sul convoglio che nel frattempo era transitato sotto.

Nello stesso tempo giun­gevano al Cern uno schermo per la radiazione termica proveniente da Israele, materiale per l’isolamento termico dall’Austria, e con­duttori dalla Germania, dall’I­talia e dalla Svizzera.

Confini e lotte tra Stati creano infiniti freni alle enormi potenzialità che avremmo come specie, se ci muovessimo collettivamente per perseguire scopi comuni, come dimostra già oggi l’industrializzazione dell’im­presa scientifica.

Lo sviluppo della scienza su grande scala, una delle caratteristiche del nostro tempo, non è un optional, ma una necessità”.