Bollettino 2015 novembre

Bollettino 2015 novembre

Sicuramente stiamo vivendo anni ricchi di cambiamenti, nei quali tendenze profonde emergono con forza. Viviamo un’epoca accelerata dove la cosiddetta globalizzazione ha permesso a Paesi che prima erano ai margini di integrarsi nel commercio e nel movimento dei capitali del mondo. Un’apertura e uno sviluppo che inevitabilmente significa anche movimenti di milioni uomini, come stiamo vedendo drammaticamente in questi mesi.

Allargamento del mercato mondiale e l’integrazione negli scambi internazionali sono processi che avvengono con contraccolpi, attriti, crisi e dinamiche ineguali.


SOMMARIO

Titolopag.
Ingegneri e tecnici nella ristrutturazione europea1-2
Finmeccanica nella ristrutturazione del mercato della Difesa3
Petrolio tra novità tecnologiche, lotte tra potenze e oscillazioni di Borsa4-5
CAE, Comitati Aziendali Europei6
Volkswagen7
Thales Alenia Space8

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INGEGNERI E TECNICI NELLA RISTRUTTURAZIONE EUROPEA

Sicuramente stiamo vivendo anni ricchi di cambiamenti, nei quali tendenze profonde emergono con forza. Viviamo un’epoca accelerata dove la cosiddetta globalizzazione ha permesso a Paesi che prima erano ai margini di integrarsi nel commercio e nel movimento dei capitali del mondo. Un’apertura e uno sviluppo che inevitabilmente significa anche movimenti di milioni uomini, come stiamo vedendo drammaticamente in questi mesi. Allargamento del mercato mondiale e l’integrazione negli scambi internazionali sono processi che avvengono con contraccolpi, attriti, crisi e dinamiche ineguali.

È un processo iniziato da vari decenni, che via via sta spostando il baricentro economico del mondo dall’Atlantico al Pacifico. Negli ultimi anni, questa spinta si è accentuata, complici sia la maggiore velocità di crescita dei Paesi emergenti , sia la relativa stagnazione o bassa crescita di quelli più sviluppati. Una dinamica che si è ulteriormente accentuata negli anni della crisi globale, dal 2008 in poi. Alcuni dati sono eloquenti . Secondo l’OCSE, le economie dei Paesi emergenti coprivano, agli inizi degli anni Novanta, all’incirca un terzo dell’economia mondiale contro i due terzi dei Paesi avanzati guidati dalla realtà nordamericana e da quella europea. In questi ultimi anni il peso economico dei paesi emergenti ha superato la metà del totale dell’economia mondiale e nel 2030 potrebbe rappresentare circa il 65%. Dunque, in soli quaranta anni, dal 1990 al 2030, si ipotizza nella scena mondiale un totale ribaltamento degli equilibri economici e commerciali.

I Paesi emergenti si candidano a guidare l’economia mondiale. Nascono anche nuovi organismi internazionali che si pongono come centri di potere aggiunti vi. I BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa) un anno fa hanno costituito una nuova Banca di sviluppo (NDB) ed un Fondo (CRA) aperti ad altri Paesi. La classifica dei gruppi economici è trasformata. Solo venti anni fa non vi erano gruppi cinesi nella classifica Global 500 stilata da “Fortune”, ora sono presenti a decine. Alcuni “marchi” del dragone, con l’ingresso in aziende europee (anche molte italiane), cominciano a diventare “familiari”: Lenovo, Huawei, Baidu, China Mobile, Alibaba, ICBC (Industrial and Commercail Bank of China), Chemchina, Shangai Electric, ecc. Dopo almeno tre decenni di crescita a due cifre, è in atto un processo di ristrutturazione dell’apparato cinese destinato a durare per anni con conseguenze per tutte le economie del mondo. Secondo la ”International Federation of Robotics” il numero di Robot per 1000 addetti della Cina supererà sia l’America che l’Europa già nell’arco dei prossimi tre anni (Vedi grafico).

È vero che negli ultimi mesi gli scossoni nelle borse in Cina hanno preoccupato, e anche i riflessi sui prezzi delle materie prime e sulle valute creano perturbazioni nelle economie degli emergenti ma questo non modifica la tendenza di fondo delineata. Stiamo vivendo negli anni che cambieranno la gerarchia del mondo. L’Europa ingaggia una battaglia sulla competitività per fronteggiare nuovi e temibili concorrenti . Tutti i settori anche se in maniera differenziata sono in ristrutturazione. Tecnologie digitali e automazione modificano in profondità settori produttivi. Ad esempio nel settore auto si dischiudono nuove prospettive considerando l’auto “connessa”.

È significativa la dichiarazione del Ceo di General Motors Mary Barra al Salone dei produttori di auto a Francoforte : “Il settore cambierà più nei prossimi 5 anni che negli ultimi 50, e noi vogliamo investi re nelle tecnologie che ci permetteranno di restare al vertice”. La rapidità delle trasformazioni tecnologiche è più che mai evidente. In fondo è solo nel 2007 che l’iPhone della Apple appare sul mercato. Neologismi entrano nel lessico per descrivere i processi in atto: “industria integrata” o sistemi “cyberfisici” o “quarta rivoluzione industriale”. Certa- mente una ristrutturazione europea dell’industria si sta avviando verso un maggiore utilizzo del digitale dentro la fabbrica, ma come le tecnologie digitali e l’automazione influenzeranno il tipo di occupazione o il numero dei posti di lavoro è complesso e difficilmente prevedibile. Ingegneri e tecnici sono e saranno massicciamente coinvolti in questi pro- cessi. Già negli ultimi anni la precarietà li ha riguardati direttamente. Sentirsi dei produttori comporta anche la necessità di chiarirsi meglio le idee circa la propria collocazione sociale e il ruolo del tecnico nella società.

Nella ristrutturazione spesso anche i tecnici sono soggetti a diventare “esuberi”, la pressione sulle retribuzioni si è fatta sentire e spesso sono richieste mobilità all’americana ma con stipendi all’italiana… L’incertezza per il futuro si fa strada anche tra gli “skilled worker”. Non è semplice una quantificazione statistica della componente “tecnica” dei lavoratori proprio in virtù della trasformazione di molti settori. È interessante uno studio della VIVES del 2013 (Vlaams Instituut voor Economie en Samenleving) un istituto per l’economia e la società del Belgio. Nel discussion paper dal ti tolo “High technology employment in the European union” vengono classificati non solo i lavoratori high-tech coinvolti nella produzione di beni ad alta tecnologia e servizi, ma anche quelli impegnati in attività altamente tecniche in altri settori. Si includono anche i lavoratori impiegati in occupazioni delle discipline accademiche STEM (Science, Technology, Engineering, Mathematics). Sono inclusi ad esempio ingegneri in produzione di auto, programmatori di computer nel commercio al dettaglio, analisti quantitativi nei servizi finanziari, o statistici in amministrazione sanitaria. Questo approccio fornisce una misura più ampia rispetto a quelli comunemente usati per il segmento della forza lavoro europea “orientata tecnologicamente”.

Come si vede dal grafico in Fig. 2. a partire dagli anni 2000, la crescita di occupazione nel settore high-tech (calcolata come indicato sopra) è più del doppio rispetto agli altri settori. Una dinamica interrotta negli anni della crisi, ma che mostra un trend inequivocabile. Cresce il peso di forza lavoro qualificata. Numericamente parliamo di 21 milioni di persone, il 10% del totale occupati nella UE a 27. Ovviamente la percentuale sul totale degli occupati è molto diversa da regione a regione (Fig. 3). È significativo che la Lombardia con 537 mila addetti rappresenti la seconda regione in Europa (Fig. 4) per numero assoluto. Emerge quindi, un segmento di lavoratori in crescita in Europa attorno a cui ci sono molto incognite. Parliamo di figure professionali che spesso non sono adeguatamente rappresentate. Ad esempio la figura dell’informatico è assolutamente trasversale tra vari settori. Esistono lavoratori informatici inquadrati nel contratto metalmeccanico, ma anche con il contratto bancario (nei centri di calcolo di banche e assicurazioni) e magari con il contratto del commercio.

Riteniamo urgente e utile approfondire questi aspetti , comprenderli e ragionare sugli strumenti necessari per l’intervento in questo settore. Si impone la necessità di coalizione anche oltre alle barriere nazionali.


FINMECCANICA NELLA RISTRUTTURAZIONE DEL MERCATO DELLA DIFESA

In un mondo purtroppo sempre più attraversato da crisi e guerre il settore dell’industria della difesa assume sempre più un peso crescente.

In particolare, il mercato del cosiddetto A, D & S (Aeronautica, Difesa e Sicurezza) ha raggiunto negli ultimi decenni una notevole dimensione, arrivando complessivamente ad un valore di circa 445 Miliardi di Euro annui (fonti: Ihs Jane’s rielaborate da Finmeccanica). Un settore caratterizzato da una considerevole concentrazione, dove non più di 10 players, statunitensi ed europei, si dividono il 70% dell’intero mercato, mentre procedono a ritmi incessanti profonde ristrutturazioni, caratterizzate da processi di fusione, da cessioni di rami d’azienda e da ricomposizioni di aree di business. Mentre si affacciano nuovi competitor provenienti da Paesi “ex emergenti” quali la Cina, l’India e il Brasile, in Europa si prospetta una riorganizzazione del mercato della difesa che andrà di pari passo con il travagliato e contraddittorio processo di formazione di un sistema di difesa comune dell’Unione.

Una tappa significativa

Una tappa significativa di questo processo è rap- presentata dal tentativo di fusione tra British Aerospace e EADS con una trattativa che iniziò nel settembre 2012. La trattativa naufragò, ma lasciò un segno tra gli attori del mercato della difesa in Europa, perché indicò con chiarezza ai gruppi industriali del continente, quali sarebbero state nel prossimo futuro le dimensioni necessarie per reggere la durissima competizione sul mercato mondiale di questo settore. É in questo difficile contesto che Finmeccanica, uno dei pochi grandi gruppi rimasti in mano al capitalismo di casa nostra, sta avviando un complesso e profondo processo di ristrutturazione che coinvolgerà i suoi 54.380 dipendenti (dati al 31 dicembre 2014) e 273 stabilimenti concentrati prevalentemente in Europa.

Ricetta “one company” per Finmeccanica

L’obiettivo dichiarato dal nuovo amministratore delegato Mauro Moretti, insediatosi nel 2014, è quello di tirare fuori il gruppo dalle secche in cui si è arenato nel periodo che ha seguito la reggenza precedente . Due soli indicatori possono dare un’idea molto efficace dello stato di salute di questo gruppo a partecipazione statale: il titolo Finmeccanica è passato da un valore pre-crisi di 21,32 euro (15/06/2007) a quello minimo di 2,62 euro del 19 dicembre 2011, per poi risalire parzialmente fino ai giorni nostri (circa 11,90 euro). Il patrimonio netto del gruppo è passato da un valore massimo del 2010 pari a 7.098 mln di euro ad un valore attuale che è vicino al dimezzamento. La ricetta del nuovo gruppo dirigente per tentare di “invertire la rotta” sarà quella di dare vita a partire dal primo gennaio 2016 da una nuova “one company” dove confluiranno le principali controllate (Selex ES, Alenia Aermacchi, Agusta Westland, Oto Melara e Wass). Un imponente processo di fusione che trasformerà definitivamente Finmeccanica in un’unica industria, facendole perdere definitivamente la connotazione di holding finanziaria. È persino superfluo immaginare quali saranno le conseguenze di questo processo sull’occupazione all’interno degli insediamenti di Finmeccanica in Italia e sul continente europeo. In un gruppo dove il tasso di scolarizzazione della forza lavoro è particolarmente elevato (37% laureati, 43% diplomati) appare inevitabile che ingegneri e tecnici saranno pesantemente investiti dalle conseguenze di questa riorganizzazione, che nelle intenzioni del gruppo dirigente dovrà dar luogo ad una funzione di ingegneria nella quale confluirà circa il 50% di tutta la forza lavoro. Finmeccanica lo ha già chiaramente esplicitato: il processo di fusione dovrà essere in grado di rendere più funzionale la progettazione e la produzione alzando significativamente la produttività. La coalizione tra queste stratificazioni ad alta qualificazione diventa in questo scenario un’esigenza non più rinviabile: all’ordine del giorno si imporrà sempre più la necessità di coordinarsi indipendentemente dai siti e dai luoghi geografi ci di provenienza, a prescindere dal Paese in cui operano. Un modello sempre più necessario perché, così come i gruppi economici si organizzano in un mercato che ha come limite il mondo intero, tale impostazione dovrà essere fatta propria anche dai lavoratori che operano all’interno di questi stessi gruppi per organizzare più efficacemente la difesa delle proprie condizioni economiche e professionali, oggi pesantemente attaccate, guidati da quell’ “orgoglio del produttore” che li accomuna e che ha reso famose queste aziende nel mondo.


PETROLIO TRA NOVITÀ TECNOLOGICHE, LOTTE TRA POTENZE E OSCILLAZIONI DI BORSA

Il crollo del prezzo del petrolio che si è registrato nell’ultimo anno ha pochi precedenti. Dal picco di quasi 110 dollari al barile, per la qualità WTI, della metà del 2014 si è passati a circa 40 dollari nella seconda metà dell’agosto di quest’anno. La causa che spinge in questa direzione è il gap tra domanda e offerta. Da un lato l’offerta di greggio continua ad aumentare, alimentata dalla produzione di petrolio “non convenzionale” (shale oil) ameri-cano e dalla guerra che i Paesi OPEC, capeggiati dall’Arabia Saudita, stanno conducendo proprio nei confronti dei trivellatori americani. Dal lato della domanda, è il rallentamento dell’economia cinese, che è il primo importatore mondiale di petrolio, ad alimentare il movimento al ribasso innescatosi un anno fa.

Peculiarità del petrolio

Il petrolio ha delle peculiarità che ne hanno fatto un attore, talvolta sopravvalutato, della storia del ‘900 e di questa prima parte del nuovo secolo. È una merce e ha importanza nella misura della sua quota nel commercio e nella produzione mondiale. Però è anche una merce particolare in quanto è merce necessaria alla produzione di altre merci. In più, la sua distribuzione geografica non è affatto uniforme e questo ha indirizzato in un verso o in un altro la storia recente di molti Paesi. Il giro d’affari complessivo comprendente la vendita di greggio, dei prodotti raffinati, la distribuzione, i servizi, le royalties, ecc. ammonta a una percentuale variabile tra il 4 e il 5 per cento dell’intero PIL mondiale. Ma i suoi riflessi si amplificano anche al di là di questo valore.

Resilienza dello Shale

Allo stato attuale la possibilità di una inversione del ciclo a breve è molto incerta. Da una parte il rallentamento cinese si accentua e lo scoppio della bolla immobiliare e borsistica può generare effetti ancora più deprimenti sulla domanda. Dall’altro lato, c’è il rientro dell’Iran nel mercato mondiale. Bijan Zanganeh, ministro del petrolio iraniano, ha dichiarato che il suo Paese avrebbe la volontà di riversare nel giro di un mese un milione di barili al giorno sul mercato mondiale, a partire dall’eliminazione definitiva delle restrizioni. Tutto ciò, senza contare l’apparente maggiore resilienza mostrata dai produttori di shale oil americani nei confronti della guerra dei prezzi mossa nei loro confronti dall’Arabia Saudita. Il calcolo saudita infatti si basava sulla convinzione che i costi di produzione di shale oil non avrebbero consentito di reggere la partita dei prezzi a buona parte delle società di trivellazione nate negli Stati Uniti. In realtà, se è vero che nell’ultimo anno le torri di trivellazione in funzione negli Stati Uniti si sono più che dimezzate (Oil & Gas Journal, 25/08/2015), sono state le grandi Oil & Gas Company ad abbandonare il business divenuto meno redditizio. I trivellatori indipendenti continuano invece a cercare e trivellare assomigliando in questo ai cercatori d’oro americani di più di un secolo fa che non smettevano di scavare “finché c’era da trovare qualcosa”. Il risultato di ciò è che, contro tutte le previsioni, la produzione di shale oil in USA è ancora aumentata a 7 milioni di barili al giorno.

Petrolio e uomini

Gli effetti di questo ciclo prolungato di prezzi bassi non si sono fatti attendere. Nel corso dell’ultimo anno infatti gli investimenti delle compagnie petrolifere sono stati tagliati di ben 200 miliardi di dollari, di cui ben 129 miliardi nel solo 2015 (World Oil 23/07/2015). Le prime ripercussioni di questo taglio degli investimenti si sono avuti per le società di servizi e contracting del settore Oil & Gas che hanno visto calare vistosamente le loro commesse. La risposta, non c’era altro da aspettarsi, è il taglio dei posti di lavoro. Technip France ha dichiarato 7500 esuberi; Saipem in Italia ha annunciato un dimagrimento della sua forza lavoro di ben 8000 lavoratori; ABB ha lanciato un programma denominato “white collar pro- ductivity” che dovrebbe portare a un risparmio sui costi legati al lavoro salariato di un miliardo di dollari entro il 2017. Secondo World Oil del 23 luglio 2015 sono più di 70.000 i lavoratori del settore che sono stati licenziati dall’inizio della crisi dei prezzi del petrolio. Ma siamo solo all’inizio perché dopo aver attaccato le società di contracting, si prevedono licenziamenti nel cuore del settore cioè nelle ricche Oil Company. Secondo World Oil del 29 luglio 2015, si prevedono più di 150.000 posti di lavoro in pericolo per le maggiori Oil Company.

Più profitti ma meno occupati

Ciò che deve far riflettere è che gli annunciati licenziamenti per conseguire la riduzione dei costi non sono affatto determinati da una situazione di crisi conclamata con bilanci in rosso e perdite economiche. Le grandi società petroli­fere hanno continuato e continuano a maci­nare profitti, sebbene in misura minore degli anni passati. Il senso della campagna di licenzia­menti è dato dalla dichia­razione del CEO di BP, Bob Dudley: “la princi­pale priorità della compa­gnia è mantenere i livelli dei dividendi per gli azio­nisti” (World Oil del 19 luglio 2015). Le grandi compagnie petrolifere mondiali hanno garan­tito profitti giganteschi ai loro azionisti nel corso degli anni passati (vedi Tabella).

Anche quest’anno sono previsti conti eco­nomici positivi sebbene con una contrazione degli utili.

I posti di lavoro tagliati riguardano tutti i livelli delle stratifica­zioni salariali, dall’ope­raio all’ingegnere ultra specializzato e, in alcuni casi, sono proprio que­sti ultimi a pagare maggiormente la “necessità” di mantenere il livello dei dividendi da garantire agli azionisti.

White collar & Black oil

La presenza di una grande quantità di tec­nici e ingegneri, oltre che di altro personale altamente scolarizzato nei diversi settori ammi­nistrativi e manageriali, nelle grandi Oil Company è anche legato al fatto che si tratta di società ad altissima intensità di capi­tale, in cui cioè l’incidenza del capitale costante (macchinari, impianti, ecc.) rispetto al capitale variabile (forza lavoro) è molto alto. E l’inno­vazione tecnologica in questo campo è conti­nua, sebbene i risultati non siano pubblicizzati o spettacolarizzati come quelli dell’ultimo tablet o della app innovativa. Si pensi alle esplorazioni offshore in acque pro­fondissime, alla realizza­zione delle gigantesche piattaforme di produ­zione oceaniche o ancora agli impianti realizzati tra i ghiacci del Canada o nei deserti africani. Per dare un’idea del livello tecnico di questo set­tore, basti riprendere la considerazione di Daniel Yergin, storico ed eco­nomista specializzato nel settore energia e presidente della “Cam­bridge Energy Research Associates” , secondo cui la messa in servi­zio dei campi petroliferi del Mare del Nord deve essere paragonata, in ter­mini di tecnologie svilup­pate, massa di calcoli e simulazioni e non ultima da quello dell’organizza­zione manageriale, alla conquista della Luna delle missioni Apollo.

OIL e M&A

Ci sono altri effetti legati al ciclo di bassi prezzi del greggio. In primo luogo le forti per­dite azionarie delle Oil Company e delle società ad esse collegate, tanto forti al punto che i valori azionari risultano in certi casi molto al di sotto degli asset dete­nuti, fanno prevedere una nuova ondata di fusioni e acquisizioni. Il processo è già in atto con processi di “riorganizzazione” e di “efficientamento”, in altre parole, probabili ulteriori tagli dei posti di lavoro.

Possiamo fare un’ul­tima considerazione. Il mondo attuale è domi­nato da una gigantesca contraddizione.

Da una parte la pro­duzione delle merci è organizzata in forma scientifica; vengono studiati metodi di pro­duzione sempre più effi­cienti per ottimizzare l’uso delle risorse, i tempi di realizzazione e la qua­lità delle merci stesse.

Dall’altro lato, nel momento in cui le merci compiono il loro ciclo produttivo ed escono dalla fabbrica, sono assoggettate all’anar­chia del mercato. Quella stessa merce che viene prodotta calcolando al secondo i tempi e le risorse necessari a pro­durla, rimane magari invenduta perché il mer­cato non la richiede più o perché ne è stata pro­dotta troppa o perché un imprevista fluttuazione dei cambi rende il suo acquisto meno conve­niente. Da una parte dun­que la tecnica che usa la scienza, dall’altra il caos del mercato capitalistico.

Gli ingegneri, i tecnici si trovano proprio in mezzo. Sono stati for­mati per risolvere razio­nalmente i problemi della creazione e della produ­zione reale e la matema­tica, la fisica, la chimica sono parte integrante del loro bagaglio di cono­scenze. Dall’altro c’è un mondo fatto di spread, di bolle speculative, di sva­lutazioni monetarie che nulla hanno a che vedere con la produzione reale, ma che la influenzano fino a diventare deter­minanti al punto da tra­scinare nel vortice di ristrutturazioni, licenzia­menti e precarietà anche gli stessi tecnici e inge­gneri e spesso con effetti più drammatici anche per altri uomini.

Si pone davanti a tutti l’esigenza di liberare le forze produttive sociali dagli attuali angusti rap­porti di produzione.


CAE, COMITATI AZIENDALI EUROPEI
Un primo passo nella costruzione del Coordinamento dei lavoratori europei

CAE una sigla che da oramai 20 anni si aggira per l’Europa, meglio conosciuta per gli anglofoni con European Works Council. Sono comitati costituiti, seguendo norme europee, all’interno di una azienda che possiede più siti o unità produttive in diversi (almeno due) Paesi europei; sono formati da rappresentanti dei lavoratori dei vari siti e sono generalmente seguiti e coordinati da funzionari sindacali. In realtà visto che i regolamenti di funzionamento e costituzione dei Comitati sono frutto di contrattazione tra le parti, molte e diverse sono le forme ed i contenuti dei CAE ad oggi in funzione. Per cercare di uniformare ed allargare la presenza dei CAE, sono state emanate due direttive, una nel 1994 ed una, che intende superare la direttiva precedente, nel maggio 2009. Questi comitati, nell’intenzione del legislatore, sono organismi che rappresentano i lavoratori europei di un’azienda. Attraverso questi comitati i lavoratori sono informati e consultati a livello transnazionale dal management dell’azienda sull’andamento dell’azienda ed ogni qualvolta una decisione della dirigenza possa avere impatto sui lavoratori di almeno due Paesi facenti parte della comunità europea.

La crescita dei CAE

Partendo dai primi anni Novanta, il numero dei CAE, già presenti in alcune importanti aziende, è aumentato fino a contare oggi circa 1000 aziende europee. Il grafico riportato da bene l’idea della dinamica di crescita. Quindi i primi anni ‘90 vedono solo uno sparuto numero di CAE presenti nel territorio europeo; l’introduzione della prima direttiva (nel ‘94) porta ad un forte aumento del numero dei CAE, che prosegue, anche se con ritmi inferiori, fino ad oggi. Da notare che, nonostante direttive e leggi, attualmente ben il 64% delle aziende che sono nelle condizione di avere un CAE ne sono, in realtà, prive. In Italia sono diverse le aziende che partecipano ad un CAE.

Limiti e potenzialità

Questi comitati di rappresentanza nascono con limiti che derivano direttamente dalle direttive del “legislatore europeo”. L’informazione (in alcuni casi obbligatoria) è meramente “una trasmissione di dati da parte del datore … per consentire loro di prendere conoscenza della questione”. La consultazione diventa “lo scambio di opinioni e l’instaurazione di un dialogo tra i rappresentanti dei lavoratori e il datore di lavoro”. Siamo decisamente ancora lontani da una contrattazione europea… Comunque con tutti i limiti segnalati, la presenza di questi organismi è un primo passo per la creazione di un coordinamento sindacale europeo. In questi consessi, i lavoratori si incontrano ed hanno la possibilità di conoscersi, di scambiarsi opinioni e di mettere a confronto le diverse esperienze. Anche perché è evi- dente che da una parte sono lavoratori già inquadrati in organismi sindacali nazionali con tutte le differenze e le specificità del caso, ma dall’altra sono soggetti alle stesse “regole” e politiche della direzione e degli organismi europei. Il “lavoratore europeo” esiste già nei fatti ma non ancora nella consapevolezza degli stessi protagonisti. Spesso nei nostri settore il rapporto con colleghi di altri Paesi è frequente con mail, conference call, chat e comunque è un rapporto oggettivo dato dalla comune appartenenza alla stessa azienda. Riteniamo necessario che il nostro rapporto non si esaurisca in mero rapporto di lavoro ma proprio per la possibilità di collegamento che i CAE consentono, possa essere sfruttato per organizzare e promuovere una coalizione effettiva dei lavoratori d’Europa.


VOLKSWAGEN
Sentirsi troppo forti?

In questi giorni fiumi di inchiostro sono scorsi intorno alla vicenda VW. La sostanza è che la VW ha truffato.

La genesi

A partire dalla cappa di smog su Los Angeles negli anni ‘70 sono nate le legislazioni che limitano le emissioni delle vetture e dei veicoli commerciali. Nel tempo, sull’onda di spinte ecologiste, i limiti sono diventati sempre più restrittivi. Questo ha costretto i costruttori ad introdurre sistemi di riduzione degli inquinanti, che hanno aumentato sensibilmente il costo del motore. Si stima che un motore Diesel odierno, i sistemi di post trattamento dei gas di scarico pesino per 30-40% del costo complessivo. Una manna per i produttori: dalla filiera della componentistica ai “car maker” che hanno visto ridurre i tempi di sostituzione dei veicoli messi “fuori legge” dalle legislazioni sempre più restrittive e copiosi incentivi alla rottamazione.

Quote di mercato

Come era prevedibile le legislazioni legate alle emissioni sono diventate fin dagli albori strumenti delle battaglie commerciali e di protezionismi sotto traccia. Complice la differente penetrazione dei carburanti legata a costi fortemente differenziati. É arcinoto che negli USA la benzina costa molto meno che in UE, dai 50 Cent ad 1€ al litro a seconda delle altalene del petrolio. La ricaduta tecnologica è stata lo sviluppo in USA di motori benzina di elevata cilindrata dai 1800 cc in su e per converso in UE di motori benzina di piccola cilindrata e dei motori diesel che hanno una efficienza termodinamica maggiore del 10-20% e minori consumi.

Normative

Le emissioni inquinanti sono normate su ambo i lati dell’Oceano ma con forti differenze. In EU esiste una sola normativa (Euro 5, Euro 6) mentre negli USA a fronte di una normativa federale “minima”, monitorata dall’EPA, si possono affiancare normative restrittive nei singoli Stati, come avviene in California con il CARB. Inoltre il livello di controllo delle vetture su strada è più vincolante e gli stessi costruttori USA hanno dovuto pagare multe per non aver rispettato il dichiarato. Inoltre in USA i metodi di misura , i “cicli” sono più impegnativi ed i livelli di emissione estremamente più bassi. Questi livelli sono un problema per i motori diesel che, a fronte di una efficienza termodinamica migliore e minori consumi, producono più NOx difficili da eliminare. Ad oggi per i benzina basta un “catalizzatore a tre vie” mentre per i diesel ci vogliono più sistemi di abbattimento, EGR, DOC, DPF, NSC / SCR con penalizzazione delle prestazioni, dei consumi e della affidabilità complessiva del motopropulsore. Da qui l’uso dei limiti di NOx come arma contro la penetrazione in USA.

Una partita aperta

Quello che ha fatto la VW è una truffa perché aggira direttamente il divieto di riconoscere il ciclo di omologazione leggendo alcuni parametri di centralina per escludere gli apparati di post trattamento dei gas quando il veicolo è inequivocabilmente su strada. Rimane aperta la domanda sul perché il management VW abbia operato una scelta del genere in un mercato dominato da tre concorrenti di stazza mondiale, ostili al diesel, in cui i controlli sui veicoli circolanti sono all’ordine del giorno. I vantaggi in termini prestazionali e di consumi difficilmente giustificano questa scelta anche a fronte di una campagna pubblicitaria sul diesel pulito e prestazionale. Qualunque sia il motivo per questa scelta “miope” l’immagine di VW basata sulla “affidabilità tedesca” ne esce duramente colpita. Dopo il mea culpa di Winterkorn la strada della VW per recuperare l’immagine del marchio è in salita, aggravata dal fardello delle multe che peseranno sulla capacità di investimento e proiezione mondiale del gruppo. Dopo le pesanti perdite borsistiche, 24 MLD di euro che fanno impallidire le tranches greche, si annunciano “risparmi” che peseranno, anche questi, sulle spalle dei lavoratori. L’insieme della vicenda però è una immagine efficace della irrazionale anarchia della odierna organizzazione sociale. Consumatori esigenti ed ecologisti che cercano la chimera dell’auto che non inquina, consuma poco e scatta al semaforo sono solo il sottofondo su cui lavorano i grandi gruppi per strapparsi quote di mercato. In questa corsa enormi energie vengono spese per le soluzioni tecniche più innovative per risicare il grammo di CO2 ed il milligrammo di NOx per rispettare i vincoli legislativi. Paradossalmente, le ambizioni dei singoli manager guidati dal profitto trimestrale e dalle quote di mercato mensili possono annullare anni di ricerca. Qualcuno parla di fine del diesel, ma le quote di mercato nei BRICS sicuramente entreranno nel dibattito europeo “catalizzando” scelte ed investimenti sulla scorta di quanto successo con il carbone che morto in Occidente è resuscitato in Cina. Rimane l’amaro in bocca nel vedere come le intelligenze di migliaia di tecnici vengano focalizzate su aspetti secondari, il milligrammo di NOx nelle autostrade della California a bordo di una auto climatizzata, mentre migliaia di esseri umani il deserto lo attraversano a piedi per sfuggire a fame e guerre.


THALES ALENIA SPACE
Un esempio di stratificazione tra i tecnici

La condizione dei tecnici dell’indu­stria spaziale italiana si è profondamente modi­ficata nel giro di pochi decenni, dando vita ad una stratificazione un tempo inesistente.

Trent’anni fa, in un momento di forte espansione, il settore spazio di Aeritalia (oggi Thales Alenia Space) necessitava di una gran quantità di inge­gneri e tecnici. Non tro­vandone a sufficienza sul mercato italiano, adottò una duplice strategia. Da una parte decise di reclutali in Irlanda, terra dove i giovani ingegneri non trovavano sufficienti collocazioni nel mondo del lavoro.

Dall’altro decise di organizzare in collabo­razione con il Politec­nico di Torino, dei corsi specifici per formare dei tecnici con una for­mazione universitaria triennale (allora non esi­stevano le lauree brevi).

I giovani erano assunti direttamente in Azienda con il con­tratto metalmeccanico a tempo indeterminato. Da allora le cose sono cambiate prima lenta­mente, e poi sempre più velocemente. L’azienda ha allargato consisten­temente l’utilizzo di con­sulenti, utilizzandoli come polmone da allar­gare o da restringere a seconda delle necessità del mercato.

La quota di questi consulenti è cresciuta fino ad arrivare a circa il 20% della forza lavoro impiegata direttamente in azienda.

Da questo bacino di consulenti l’azienda ne reclutava una quota per sostituire le fuoriuscite, creando aspettative di stabilizzazione tra que­sti lavoratori.

Da qualche anno Thales Alenia Space ha deciso di chiudere pro­gressivamente l’assor­bimento di tecnici da questo bacino, per assu­mere direttamente attraverso i contratti di somministrazione, fru­strando in questo modo le aspettative di assun­zione dei consulenti.

Altro sistema di uti­lizzo della forza lavoro qualificata a basso costo è quello degli stage. Spesso i giovani neo­laureati sono chiamati a fare stage in azienda, per poi essere assunti o come consulenti o come somministrati.

In questo modo non fa che prolungarsi ulte­riormente nel tempo la loro condizione di incertezza e precarietà.

Insomma, oggi in Thales Alenia Space i tecnici che lavorano fianco a fianco sono divisi tra dipendenti, somministrati, stagi­sti e consulenti, e que­sti ultimi a loro volta sono divisi in aziende con contratti differenti, dal metalmeccanico al commercio.

Per molto tempo ha prevalso, permeando anche il modo di pen­sare dei tecnici e degli ingegneri, l’idea che i cosiddetti “knowledge workers” fossero un mondo a parte, immune dagli alti e bassi del mer­cato del lavoro.

I fatti si sono incari­cati, nella loro crudezza, di smentirla.

L’area tecnica del lavoro industriale dipendente è sicuramente una realtà in crescita in vir­tù delle continue e consistenti trasformazioni della struttura produttiva e della ristruttura­zione. Riteniamo assolutamente necessario dare voce ad una vasta categoria di lavoratori sapendo che si deve partire quasi da zero, in quanto le tradizionali organizzazioni sindacali sono su questo piano assolutamente carenti.

Le soluzioni individuali tutt’altro che illusorie per alcuni, sono oggettivamente precluse ai più. Possiamo avviare occasioni di scambio reciproco di esperienze tra gruppi di colleghi delle diverse aziende per un comparto di lavoratori che non è sufficientemente rappresen­tato nonostante sia sempre di più una componente numericamente crescente.